"RIGHT IS RIGHT, LEFT IS WRONG"

venerdì 5 novembre 2010

Un presidente monomandato


Il Presidente Obama ha perso qualcosa di più che non una semplice elezione di medio termine: ha perso la sua legittimazione morale e politica. Martedì scorso [3 novembre 2010] gli elettori hanno del tutto ripudiato la politica socialista di Obama. I democratici hanno perso la Camera dei Rappresentanti sotto una storica valanga di voti contrari, e i repubblicani del GOP hanno conquistato almeno 60 seggi. Al Senato, la maggioranza democratica è stata considerevolmente ridimensionata e il programma di governo dei liberal è morto.
    Obama ha male interpretato il mandato elettorale ricevuto nel 2008, impegnandosi nel tentativo di creare uno Stato di diritto di stile europeo. Invece di risanare l’economia, ha scelto la strada della glorificazione personale e dell’arroganza, conquistandosi così la fama del presidente più radicale della storia degli Stati Uniti.
    La presidenza Obama è uno spartiacque in quanto, da rivoluzionario, egli ha invocato apertamente un cambiamento e una trasformazione del Paese. E i libri di storia mostreranno che, durante i primi anni della sua amministrazione, ci è riuscito, almeno temporaneamente.
    Il suo programma di stimolo economico da 814 miliardi di dollari è stato un esperimento di neo-keynesianismo radicale. Il governo federale ha sostanzialmente nazionalizzato il settore dell’automobile, le imprese assicurative, il sistema bancario e i prestiti d’onore agli studenti. La riforma per il controllo della finanza, blindata perché “troppo grossa per fallire”, ha reso i “salvataggi” statali una struttura permanente dell’economia. La Environmental Protection Agency ha stabilito che il carbonio è un “inquinante” e ha spianato così la via a una massiccia legislazione ambientalista, che pesa sull’industria manifatturiera, raggiungendo l’obiettivo di partenza del “cap-and-trade”, cioè ridurre le emissioni di carbonio e spingere in alto i costi del suo utilizzo, ma surrettiziamente.
    Inoltre, la spesa pubblica ammonta al 25% del nostro PIL. Il disavanzo di migliaia di miliardi di dollari prodotto da Obama sta seppellendo l’America sotto una marea d’inchiostro rosso. Il debito nazionale si sta avvicinando al 100% del PIL, cioè a un livello dal quale nessun Paese può riprendersi: siamo sulla soglia della bancarotta.
    In breve, Obama ha lasciato impresso il suo marchio progressista sulla società. Molti liberal guarderanno alla prima parte del suo mandato come a una sorta di età dell’oro, come al momento culminante del liberalismo radicale della Great Society di Johnson e del New Deal di Roosevelt. In effetti, in questi anni il partito democratico è stato preso in ostaggio dai radicali e dai fanatici ideologici post-sessantottini.
    Comunque, nonostante l’umiliante sconfitta, i leader dei democratici non riescono — né lo vogliono — ad ammettere che devono cambiare rotta. Nella conferenza-stampa di mercoledì scorso, Obama ha insistito caparbiamente sostenendo che le sue più importanti decisioni sono state “difficili”, ma “giuste”. La versione della Casa Bianca è che gli elettori sono stati delusi dall’economia in sofferenza e dalla lentezza della ripresa, il che è in certa misura vero.
    Ma quello che gli elettori capiscono e che Obama non capisce è che è stata la sua politica a peggiorare di molto le cose. La spesa per gli stimoli all’economia non solo non è riuscita a tenere la disoccupazione al di sotto dell’8%, ma è stata anche un massiccio sperpero, un enorme dispendio di dollari dei contribuenti, ipotecando il futuro dei nostri figli e producendo deficit megagalattici. Il pesante portato dell’Obamacare, gli enormi aumenti di tasse e l’inasprimento del controllo sul settore finanziario hanno messo a rischio il business e stornato il capitale d’investimento. Il settore privato, motore della crescita e dell’occupazione, è stato soffocato dal liberalismo statalista. Il risultato è che la disoccupazione è aumentata, mentre si profila lo spettro di una forte inflazione e l’inizio di una fase di stagnazione economica.
    La nazione sta perdendo speranza: Obama ha ereditato una recessione e l’ha trasformata in depressione, dimostrando ancora una volta che il liberalismo radicale è un disastro.
    Ma Obama non virerà verso il centro, come fece Bill Clinton agli esordi della rivoluzione repubblicana del 1994. Il comandante in capo è un ideologo ed è determinato a consolidare quello che ha realizzato in campo legislativo. Ma si scaverà il terreno sotto i piedi, se respingerà i tentativi del GOP di ridimensionare il suo Stato progressista e controllore. Insieme al leader della maggioranza senatoriale Harry Reid, Obama difenderà la sua eredità a tutti i costi. Non permetterà che l’Obamacare venga respinto, e neppure che sia in gran parte modificato. La spesa non sarà tagliata. Il disavanzo galoppante non sarà ridotto. La nazione dei “salvataggi” dello Stato continuerà a esistere.
    Ecco perché Obama è destinato a essere un presidente “one-term”, un presidente, cioè, "monomandato". E lo sa bene, benché paia non curarsene. Come ebbe modo di dire a un intervistatore nei primi tempi del suo mandato, Obama preferisce essere un “grande presidente monomandato”, piuttosto che un “mediocre” presidente “da doppio mandato”. E “grande”, per Obama, vuol dire: “che impone il socialismo utopistico”.
    La grande verità del liberalismo radicale — cosa che Obama, Reid e Nancy Pelosi afferrano tutti fin troppo bene — è che la politica può influenzare e modellare la cultura. E il liberalismo radicale favorisce la cultura della dipendenza e del vittimismo, secondo cui il potere dello Stato è la risorsa decisiva per la realizzazione dell’uomo e che, cioè, in essenza, sostituisce la fede nello Stato a quella in Dio.
    La grande verità del conservatorismo, invece, è che la cultura è più importante della politica, anche se, nonostante questa consapevolezza, i conservatori si sono rivelati decisamente deboli nel combattere lo statalismo. I repubblicani hanno promesso che avrebbero respinto ogni significativa estensione del Welfare State, ma non ci sono riusciti. Il New Deal è stato mantenuto e la Great Society, sebbene erosa ai margini, rimane intatta.
    La domanda è: possono i rinati repubblicani fare finalmente a Obama quello che non sono stati capaci di fare a Franklin Roosevelt e a Lyndon Johnson?
    Obama scommette di no, e baserà la sua restante presidenza su questa scommessa.
    Ne consegue che gli elettori probabilmente dovranno finire nel 2012 il compito che hanno appena intrapreso: porre fine a questo storico assalto alle istituzioni americane.

[L'articolo è apparso su The Washington Times del 5 novembre 2010]


giovedì 4 novembre 2010

L’impero di Soros
Il miliardario megalomane minaccia
i valori americani



Riecco George Soros. Il noto miliardario sinistrorso ha scritto questa settimana una nota apparsa nella sezione degli editoriali del Wall Street Journal in cui chiede la legalizzazione della marijuana. Soros sostiene “Proposizione 19”, il referendum californiano che si terrà [si è tenuto, con esito negativo per i proponenti (ndr)] il 3 novembre, che vorrebbe legalizzare il possesso di modiche quantità di marijuana e consentire la sua coltivazione fra le mura domestiche.
    “Proposizione 19” è solo un importante passo verso la meta ultima di Soros: la legalizzazione di quasi tutte le droghe pesanti, incluse la cocaina e l’eroina. Si tratta di una causa che Soros ha sposato e finanziato per decenni e che, se vinta, avvicinerebbe l’America al suo modello di socialdemocrazia permissiva di stampo europeo.
    La diffusione delle droghe, distruggendo la vita (e il cervello) di milioni di americani, minaccia la fabbrica stessa della nostra società. E favorisce l’abuso sui bambini, la violenza domestica, il crimine, le nascite illegittime, l’AIDS e il degrado sociale: è un flagello pubblico e il suo uso non dovrebbe essere né incoraggiato, né sanzionato legalmente, bensì sradicato.
    A Soros non importa nulla che la legalizzazione si traduca in una crescita delle morti per droga e in più alte percentuali di dipendenza, specialmente fra bambini e adolescenti: Soros è un esponente della "cultura della morte". Aborto, ateismo, pornografia, matrimonio omosessuale, eutanasia e suicidio assistito sono tutti punti-chiave del programma progressista di Soros.
    Le élite mediatiche danno scarso risalto a Soros e alle sue nefaste attività perché ne condividono la filosofia politica. Ecco perché rifiutano di far luce sul suo comportamento clandestino, rapace e immorale. Sono suoi complici che ne coprono i loschi, manipolatori e deleteri traffici e velano le sue opinioni neo-marxiste radicali.
    Soros è il “paparino”del Partito Democratico e della sinistra moderna. Il suo patrimonio netto, che ammonta a più di sette miliardi di dollari, fa di lui uno dei più ricchi e dei più influenti uomini al mondo. E quasi tutte le maggiori organizzazioni, think tank o canali mediatici liberal sono stati beneficiati dalla liberalità di Soros: il periodico The Nation, Mother Jones, Media Matters, MoveOn.org, NPR e il Center for American Progress nel complesso hanno ricevuto milioni di dollari dal finanziere. Essi fungono da gruppi di frangia e da veicoli di propaganda per promuovere il tipo di socialismo transnazionale che piace a Soros.
   Soros ha versato centinaia di milioni di dollari al vecchio blocco comunista. L’ex impero dei Soviet era diventato addirittura l’impero di Soros: era lui che lavorava dietro le quinte per destabilizzare e per influenzare Stati come la Croazia, la Slovacchia, la Serbia, la Georgia, il Kosovo e l’Ucraina, in cambio delle loro risorse naturali.
    Soros è un imperialista liberal che opera per instaurare un governo unico mondiale; è rabbiosamente contro il capitalismo; è in favore dell’innalzamento delle tasse, della spesa pubblica esagerata, dello statalismo del welfare, di una massiccia ridistribuzione della ricchezza ai poveri e di uno stretto controllo del sistema finanziario internazionale. Disprezza il senso nazionale e l’eredità giudeo-cristiana dell’Occidente. Il suo obiettivo è quello d’introdurre il mondo a un nuovo ordine globale basato sul materialismo scientifico e sull’ingegneria sociale progressista.
    Soros è un deciso sostenitore dell’amnistia per gl’immigranti illegali e dell’abbattimento delle frontiere con il Messico e con il Canada; secondo lui, la religione, gli Stati-nazione e la famiglia sono istituti repressivi e antiquati che vanno aboliti; è così il nemico della democrazia e dell’America.
    Durante la presidenza di George W. Bush, Soros chiese un “regime change” e spese quasi 25 milioni di dollari nella speranza di sconfiggere Bush nel 2004, non riuscendovi solo per un pelo.
    Il miliardario sta favorendo il caos finanziario per svalutare la nostra moneta. Soros sta scommettendo contro il dollaro Usa, cercando di minarne il valore sui mercati globali: distruggete il dollaro e la potenza economica dell’America crollerà con esso. Soros vuol ripetere il suo leggendario assalto del 1992 alla sterlina britannica, con il quale quasi riuscì a far fare bancarotta alla Banca centrale e provocò una crisi economica che costrinse i contribuenti inglesi a pagarne un caro conto. Soros fece allora la figura del bandito, intascando quasi un miliardo di dollari dal suo piano di manipolazione delle valute.
    Soros è altresì uno scaltro studioso di storia: come Leon Trotsky, uno dei padri della Rivoluzione bolscevica del 1917, egli crede che fomentare la crisi permanente aiuti la rivoluzione permanente: una prolungata crisi economica, infatti, decimerebbe la classe media e comporterebbe l’accettazione di un intervento statale senza precedenti: questo è quanto egli ha sperato accadesse negli scorsi anni.
    Soros è un ipocrita: vuole tasse più alte sulla ricchezza e una più stretta regolamentazione delle corporation. Ma il suo fondo d’investimento è registrato nelle Antille Olandesi, il che gli consente di schivare le tasse sui redditi e sui dividendi imposte dallo Zio Sam. I suoi investimenti e il suo denaro sono custoditi in conti offshore, lontano dagli artigli dell’Internal Revenue Service o dall’occhio vigile della Securities and Exchange Commission. Nel 2002, è stato imputato in Francia per insider trading. Non solo: Soros ha interessi finanziari legati ai cartelli della droga latinoamericani. Per esempio, è stato detto che abbia una partecipazione di maggioranza nel Banco de Colombia, istituto noto come lavanderia del denaro dei signori della droga: in breve, Soros pensa che le regole a lui non si applichino.
    Egli è in sostanza un megalomane amorale disconnesso dalla realtà. Si autodefinisce “il boss dei papi”, ammettendo di provare impulsi messianici. «Immagino me stesso come una sorta di dio», ha detto una volta. E ha continuato sottolineando che «in verità, mi fanno compagnia fin dall’infanzia alcune fantasie messianiche abbastanza potenti, che mi accorgo di dover controllare, per evitare che mi creino problemi». Ma Soros sostiene che ha imparato a venir a patti con esse, nel momento in cui ha abbracciato il suo destino storico mondialista. «È una sorta di malattia quando uno si considera in qualche modo figlio di dio, il creatore di tutto: ma adesso non ho più problemi, poiché ho cominciato a esserlo».
    Il fatto che Soros sia la potenza alle spalle del regime di Obama rivela la bancarotta morale e intellettuale di questo e quanto sia profondo il fallimento del liberalismo. Invece che essere considerato un eroe e un benefattore, Soros dovrebbe costituire ovunque un fattore d’imbarazzo per i liberal, dal momento che egli si pone come chiaro e immediato pericolo per la repubblica e per i suoi valori fondativi.
    Se i repubblicani riprenderanno il controllo del Congresso [come è accaduto], dovrebbero lanciare una inchiesta sulle attività politiche nefaste e sulle losche manovre finanziarie di Soros. Soros ha dichiarato guerra ai conservatori e ora tocca a noi dichiarare guerra contro di lui.

[L'articolo è apparso su The Washington Times del 28 ottobre 2010]

sabato 23 ottobre 2010

Annientare i democratici
Gli elettori si preparano a vendicarsi 
dello strafare di Obama


    I democratici sono alla vigilia di una sconfitta storica. Due anni giusti or sono, il partito sembrava dar vita a una coalizione di governo del tutto maggioritaria, controllando il Congresso, governatorati-chiave e molti organi legislativi degli Stati. E con l’elezione del 2008 del presidente Obama, i democratici riuscirono a occupare anche la Casa Bianca.

    Il Paese si era spostato verso il centro-sinistra. Gli elettori erano disgustati dell’aministrazione Bush, specialmente del malgoverno dei repubblicani, della dura recessione economica e del protrarsi delle guerre in Medio Oriente. Il repubblicanismo di Bush e di Cheney aveva danneggiato il marchio conservatore. I democratici ebbero così un’opportunità d’oro per instaurare sulle macerie repubblicane un duraturo regime liberale pragmatico .

    Ma l’hanno sciupata. Invece di concentrarsi sulla ripresa economica, sulla creazione di posti di lavoro e sulla vittoria nella guerra contro il terrorismo, l’amministrazione Obama ha usato la sua imponente maggioranza al Congresso per espandere i poteri dello Stato. Di fatto, se Obama avesse esercitato una leadership responsabile — tagliando la spesa, accorciando il disavanzo, portando avanti politiche di crescita e operando riduzioni di tasse permanenti alla classe media — sarebbe oggi in una condizione assai diversa. L’economia sarebbe in crescita. I sondaggi a suo favore non sarebbero un fiasco totale. E il suo partito non sarebbe di fronte a un’ondata politica ostile che sembra una marea.

    Obama è un ideologo radicale: preferisce il socialismo al pragmatismo e vuole rifare l’America invece che rivitalizzarla. Fin dal principio, il suo obiettivo è stato creare una socialdemocrazia basata su interessi corporativi, ovvero un conglomerato di organi pubblici di scala mai vista in America e che ricorda le dittature marxiste. Nei primi venti mesi della sua presidenza è stato ovunque e dappertutto: a ricevere il premio Nobel per la Pace (anche se non ha fatto un bel niente), è apparso a più riprese sulla copertina dei settimanali nazionali e in trasmissioni televisive, beneficiando dell’instancabile adulazione servile da parte dei media istituzionali.

    Tuttavia, mentre i media  lo incoronavano nuovo imperatore (di sinistra), lo scontento dei suoi sudditi, sottoposti al giogo imperiale dei democratici, cresceva. Obama si è alienato le simpatie della Middle America per un’unica e semplice ragione: la sua politica sta salassando il Paese fino all’ultima goccia e sta “spezzando le reni” alla nazione.

    Obama ora è visto, a ragione, come un individuo che ha pericolosamente perso contatto con la realtà, talmente è consunto dal potere, dalla hybris e dall’arroganza da non vedere il disprezzo che gli riservano molti degli americani. Ma questi lo vedono per quello che egli è realmente: un rivoluzionario progressista post-nazionale, che cerca di insediare una nuova classe dirigente liberal: questa è l’essenza della sua presidenza.

    Obama ha fatto ingoiare l’Obamacare al Congresso e alla maggioranza del popolo americano, abusando delle procedure legislative, rifiutando di sottoporre all’esame del suo grandioso programma sanitario dalle commissioni congressuali. La sua amministrazione si è impegnata in palesi operazioni di tangenti e di corruzione per far pressione sugli elettori-chiave: lo dimostrano i casi “Louisiana Purchase”, “Cornhusker Kickback”, nonché l’offerta di posti di giudice a fratelli di deputati. Ma, cosa peggiore di tutte, Obama ha mentito: ha promesso che la sanità statalizzata avrebbe abbassato i costi e non incrementato il deficit.         Mentre lo smisurato “diritto alla salute” costerà ai contribuenti almeno mille miliardi di dollari nei prossimi dieci anni, se non molto di più. Imporrà il razionamento delle cure e ne abbasserà la qualità. L’Obamacare non è altro che l'ennesimo costoso piano di allargamento dei diritti che non possiamo permetterci.

    Obama ha promesso che la sanità sarebbe stata un fattore della vittoria dei democratici a novembre. Ma si è rifiutato di farne oggetto di campagna elettorale. E questo perché persino lui sa che è un tema profondamente impopolare. Ha chiesto ai suoi amici democratici, molti dei quali non volevano, di sbrigarsi a votare la legge, poi li ha abbandonati a nuotare in acque infestate da squali.

    Obama ha aggredito quasi tutti i settori della società: ha nazionalizzato l’industria automobilistica, il settore finanziario e il sistema di prestiti d’onore agli studenti dei college. Il suo regime ha proposto la regolamentazione dell’uso di Internet. I suoi alleati in Congresso vogliono mettere il bavaglio alle radio conservatrici facendo passare la cosiddetta “dottrina della imparzialità”. Ha nominato parecchi zar politici con poteri a livello di Gabinetto, aggirando la normale procedura di conferma senatoriale. Il suo Dipartimento della Giustizia sta mettendo sotto inchiesta l’Arizona per aver tentato di proteggere i suoi cittadini dai cartelli della droga messicani e dagl’immigrati clandestini criminali. Ha tagliato i fondi al programma di popolamento dello spazio della NASA, facendo venir meno la posizione di vantaggio strategico che l’America aveva nella corsa allo spazio. I soli tagli di spesa che ha effettuato sono stati la riduzione di 100 miliardi di dollari del budget del Pentagono, indebolendo così la nostra capacità militare.

    Ma il suo peggior crimine, l’unico per il quale egli non può e non deve mai essere dimenticato, è aver accumulato un mastodontico deficit pubblico. La sua amministrazione ha fatto approvare a rate un disavanzo di migliaia di miliardi di dollari: ha accresciuto più lui il debito pubblico che non tutti i presidenti prima di lui, da George Washington a Ronald Reagan, messi insieme. È in via di accumulare 10mila miliardi di dollari di debito nei prossimi dieci anni, una cifra incredibile, che nessuno Stato può mai sostenere. In breve, la politica di spesa-indebitamento di Obama sta seppellendo l’America sotto una montagna di inchiostro rosso [con cui si segnano le cifre negative]. La nostra sicurezza finanziaria e nazionale di lungo termine è minacciata.

    I risultati sono stati disastrosi: i piani d’incentivo da 800 miliardi di dollari non sono riusciti a ripristinare la crescita, salvo quella del big government; l’inflazione sta salendo; il disavanzo commerciale si sta allargando; il dollaro crolla; la disoccupazione rimane ferma al 10 per cento circa; i capitali d’investimento e di affari sono in fuga; i pignoramenti di abitazioni continuano; la classe media affonda: sta subentrando la disperazione, mentre il Paese è alla deriva e la gente sta perdendo speranza.

    Ecco perché i democratici a novembre subiranno una disfatta. Se i numeri dei sondaggi odierni tengono, i repubblicani rivinceranno non solo alla Camera ma forse anche al Senato.       E sarà un duro e umiliante ripudio del programma radicalsocialista di Obama, che ha commesso il peccato capitale della politica: ha esagerato. E adesso arriva la resa dei conti.


[L'articolo è stato pubblicato su The Washington Times il 14 ottobre 2010]

lunedì 11 ottobre 2010

Il conservatorismo
di Michael Savage
Il conduttore di talk show scrive che l’Obamanomics equivale a «impoverire i poveri»


    Michael Savage[1] ha scritto un libro attuale e importante. Il fiero conduttore di talk radio, il cui programma The Savage Nation [La nazione di Savage, oppure, con un facile gioco di parole, La nazione selvatica] vanta quasi dieci milioni di ascoltatori alla settimana, ha scatenato un autentico jihad politico contro il presidente Obama.
    Impoverire i poveri: fermiamo l’assalto di Obama alle nostre frontiere, alla nostra economia, alla nostra sicurezza, pubblicato da Harper Collins, è un grido di dolore conservatore, un appassionato manifesto contro il programma radicalsocialista di Obama. Secondo Savage, il presidente è un sinistroide ancora in età adolescenziale, un narcisista la cui megalomania e i cui piani grandiosi minacciano di distruggere l’America tradizionale: «Il presidente Obama è come un bimbo spaccatutto che butta per terra un orologio di valore inestimabile che gli è stato dato in mano con estrema cura», scrive. «Senza rispetto per il valore di quello che tiene nella mano, con noncuranza lo frantuma sul pavimento e poi non riesce più a rimetterne assieme i pezzi».
    Savage chiama il presidente "Obama il Distruttore", perché il suo obbiettivo è quello di smantellare la sovranità e il libero mercato americani per instaurare al loro posto una socialdemocrazia multiculturale. Savage rivela che le politiche di Obama sono fondamentalmente non-americane e che Obama è il primo leader post-nazionale nella storia degli Usa.
    Egli avverte altresì che, lungi dall’essere un miope scolastico marxista, il presidente sta perseguendo una sistematica e deliberata strategia volta a plasmare uno Stato-bàlia all’europea. Obama non è semplicemente un progressista ingenuo, ma piuttosto un socialista rivoluzionario che professa una sorta di  "pan-leninismo". Come il fondatore della Rivoluzione bolscevica del 1917, Vladimir Lenin, Obama è un uomo dell’internazionale rossa, il cui sogno è quello di coinvolgere l’America in un grande disegno ideologico. Ecco perché ha fatto passare — contro la volontà del popolo americano — un nuovo sistema sanitario all’europea imperniato sullo Stato. Ecco perché sostiene con zelo le carbon taxes, la legislazione sul cap-and-trade, i massicci aumenti delle imposte sui redditi, la nazionalizzazione delle case automobilistiche e di gran parte del settore finanziario, gli enormi programmi di spesa e il finanziamento federale dell’aborto. Lo fa perché vuole che l’America diventi una fotocopia dell’Europa. Di fatto, Savage è convinto che il presidente sia un progressista transnazionalista, che crede fino in fondo in un governo mondiale universale basato sulle Nazioni Unite. Il capitalismo, lo Stato-nazione e l’eredità ebraico-cristiana dell’America vanno pertanto tutti gettati nella pattumiera della storia.
    Savage rivela che Obama sta decimando la classe media. La sua politica di tassazione e spesa sta creando una "povertà indotta". Milioni di americani stanno perdendo il lavoro, la casa e i mezzi di sostentamento per colpa della Obamanomics. L’America sta diventando un Paese a due livelli, uno popolato dai poveri che dipendono dai sussidi statali, l’altro, la nuova classe dirigente. Obama e i democratici, insieme ai loro alleati progressisti nel mondo dei media, dei sindacati e di Hollywood, cercano solo di rafforzare il loro potere. Non sono animati né da compassione, né da altruismo, ma solo dall’ambizione e dalla cruda e sfrenata brama di controllo della società.
    Il conservatorismo stile "one nation" di Savage non sta bene a molti esponenti dei media o addirittura della destra stessa. Egli è stato emarginato per anni, denunciato da molti liberal e da conservatori come un burino di destra o un bombarolo irresponsabile. Il suo vero crimine è tuttavia solo quello di essere, sebbene conservatore, un vero e proprio cane sciolto che non vuole far parte del decrepito e venale establishment del Great Old party (GOP). Savage sostiene che i repubblicani «[...] hanno violentato la signora Libertà per otto anni» durante l’amministrazione di George W. Bush: in breve, Savage non è il cagnolino del GOP.
    Non vi è alcunché di educato o di cauto nella sua politica: è un guerriero culturale, che non ha paura di sfidare la dominante ortodossia secolaristica e multiculturale. È contro l’aborto, tranne nel caso in cui la vita della madre sia a rischio. Pretende la chiusura della frontiera meridionale dispiegandovi migliaia di soldati americani. Vuole deportare tutti gl’immigrati illegali condannati per crimini di violenza. Crede che l’inglese debba essere la lingua ufficiale del Paese. È convinto che l’Occidente ha ingaggiato una lotta mortale contro l’islam radicale e che debbano essere usati tutti i metodi disponibili — inclusa l’analisi del comportamento – per vincere la guerra. In poche parole, Savage è una rarità nell’odierno Nuovo Ordine Mondiale: è un coriaceo nazionalista schierato per "la lingua, le frontiere e la cultura".
    Savage è disposto a dire in pubblico ciò che molti conservatori si limitano a sussurrare in privato. Ecco perché i suoi fan lo adorano e i suoi nemici lo disprezzano. È un uomo di un’altra generazione e di un altro tempo. La trasmissione The Savage nation è uno degli ultimo ridotti di libera espressione nei media, un ridotto  incontaminato dal politically correct. Savage è unico fra i principali conduttori conservatori di trasmissioni radio: non è un filo-repubblicano amante delle corporation, né un libertario materialista ossessionato dal profitto e dal porno, e neppure un sostenitore del liberismo senza frontiere. Al contrario, è un conservatore tradizionalista, schierato per Dio, la Patria e la famiglia. La sua popolarità continua a volare, a dispetto delle implacabili campagne di diffamazione scatenate contro lui, perché molti americani riconoscono che questa è la visione del mondo che ha fatto grande la nostra nazione e che è essenziale per restaurare la Repubblica.  

[L'articolo è apparso su The Washington Times del 7-10-2010]

[1] Savage conduce un talk-show per la Associated Press Radio di Washington DC.

venerdì 6 agosto 2010


BENVENUTI NEGLI STATI UNITI D'ARABIA




L’America è vicina alla resa nella guerra contro l’islam radicale. È questo il vero senso della decisione di costruire una moschea e un centro culturale islamico di tredici piani a meno di duecento metri da Ground Zero. Una commissione comunale di New York City ha dato il via libera martedì al progetto, nonostante la forte opposizione di molte famiglie delle vittime degli attacchi suicidi dell’11 settembre 2001. La maggior parte dei newyorkesi e degli americani non vuole che la moschea sia eretta: sarebbe un monumento-simbolo del trionfo dell’islamismo negli Stati Uniti.
    Ground Zero è qualcosa di più del luogo dov’è crollato il World Trade Center: non è solo dove è stato commesso un enorme crimine, ma piuttosto il luogo di un atto di guerra, un terreno sacro che contiene il sangue di tremila esseri umani, in gran parte americani, assassinati in quel giorno fatale. Come Pearl Harbor, è un santuario nazionale da dedicare alla memoria delle vittime, un eterno memoriale dell’atrocità perpetrata dal fascismo islamico su suolo statunitense.
    Gli attacchi dell’11 settembre sono stato commissionati in nome della guerra santa contro l’Occidente da estremisti musulmani che hanno usato il Corano e i principi dell’islam per giustificare le loro azioni. Il loro scopo era di portare il jihad in America, scatenando lo scontro di civiltà. In tutto il mondo gl’islamisti cercano d’imporre un impero mondiale musulmano basato sulla legge della sharia. Ground Zero è dove la Guerra è tornata di casa in America.
    Ecco perché costruire questa moschea è un sacrilegio, uno schiaffo intenzionale sul volto delle vittime, delle loro famiglie e di tutti gli americani. Ecco perché gli sponsor di questo progetto rifiutano di fare marcia indietro. Sanno infatti qual è la posta in gioco: la moschea getterà una gigantesca ombra oscura su Ground Zero, fungendo da attestato della conquista islamistica dell’America. Se I’islamismo può imporre la sua volontà nei pressi del luogo dell’11 settembre, allora può imporre il suo volere ovunque.
    L’imam che promuove l’iniziativa, Feisal Abdul Rauf, è un militante musulmano incallito, un compagno di strada degl’islamisti, ilquale ha detto pubblicamente che «la politica statunitense è stata complice» degli attacchi dell’11 settembre. In altri termini, secondo lui, gli americani avrebbero attirato quelle atrocità su di loro. È un difensore di Hamas, che giustifica l’omicidio di massa di ebrei (e palestinesi) innocenti. Ha richiesto l’introduzione in America delle corti di giustizia secondo la sharia. In breve, propugna apertamente l’islamizzazione dell’America.
    Rauf è il tipico islamista ipocrita che usa la Costituzione americana per domandare il libero esercizio della religione, nel momento stesso in cui reclama la shariah, che confonde chiesa e stato e cerca di asservire i non musulmani. Gl’islamisti stanno usando le nostre libertà nello sforzo di distruggerle.
    Inoltre, molti dei cento milioni di dollari per la moschea vengono dall’Arabia Saudita. Riyadh ha sostenuto attivamente la costruzione di madrasse e di moschee nel mondo. Il regime saudita promuove il wahhabismo, una forma particolarmente virulenta di islam. Per esempio, le chiese cristiane e le sinagoghe sono vietate nell’Arabia Saudita e la persecuzione religiosa è furibonda. Ma nessuno, né il sindaco di New York Michael Bloomberg, né il Procuratore generale dello Stato Andrew Cuomo né altri i bigotti liberal sostenitori della moschea di Ground Zero, si è preso la briga d’indagare sulle origini dei fondi di Rauf. Vi sono i wahhabisti ditero la moschea? Se è così, essa diventerà probabilmente un forum di odio e di estremismo, prioprio come la moschea finanziata dai sauditi nel Nord Virginia dove il chierico Anwar al-Awlaki, legato ad al-Qaeda, predicava le virtù del jihadismo.
    Invece di farsi carico del problema, i liberal come Bloomberg si ammantano della bandiera della libertà religiosa. «Il luogo del World Trade Center avrà sempre un posto speciale nella nostra città e nei nostri cuori», ha detto il sindaco. «Ma saremmo infedeli alla parte migliore di noi stessi e di chi è newyorchese e americano, se dicessimo di no alla moschea a Lower Manhattan».
    Rauf sostiene anche che la sua finalità è eminentemente la tolleranza: per promuovere “mutua comprensione” fra le culture e il dialogo interreligioso. Oltre a ciò, argomentano i sostenitori della moschea di Ground Zero, il centro culturale sarebbe costruito non sul luogo esatto del World Trade Center, ma due isolati più in là. Ma il vero problema è la vicinanza. La moschea di Ground Zero fa infuriare così tanta gente perché l’edificio che l’ospiterebbe è stato danneggiato materialmente dai detriti del crollo delle torri durante l’assalto dell’11 settembre. La sua collocazione è fra le macerie, cade all’interno del campo di battaglia, nell’immediata cerchia in cui gli attacchi si sono verificati. Ecco perché il problema esacerba così gli animi di molte persone ferite.
    La libertà religiosa è un diversivo. I musulmani sono liberi di costruire moschee ovunque tranne che a New York o in America. Se Rauf fosse affidabile sul fatto di consolidare la pacifica convivenza delle religioni, potrebbe e dovrebbe scegliere un’altra e più ideale collocazione nella comunità dei residenti. La reazione è stata furibonda e appassionata: il timore e la rabbia tra le famiglie delle vittime sono stati palpabili. Ma i loro sentimenti non sono stati presi in considerazione. Sono stati ignorati e persino ammoniti. Rauf potrebbe porre fine a tutto ciò con un gesto di rispetto e di buona volontà. Ma non lo farà, e questo equivale a parlare meglio di interi volumi, anche se il suo programma ideologico proclama compassione e senso comune. La battaglia sulla moschea di Ground Zero è qualcosa di più di una battaglia della guerra culturale calda. È uno spartiacque: è il punto nel quale il multiculturalismo liberal ha capitolato nei confronti della inarrestabile marcia dell’islam politico. I musulmani radicali in tutto il mondo vedranno giustamente tutto ciò come un trionfo sull’inetto americano infedele. Persino il luogo del più mortale attacco portato contro l’America non è libero dalla incombente presenza dell’slam. Questo avvenimento significa la perdita e la sconfitta della volontà e dell’impegno americani nella lotta contro il jihad.
    Non è una coincidenza che il nome della moschea, Cordoba House, sia ripreso dalla città della Spagna meridionale che segnò una delle più grandi conquiste del radicalismo islamico in Europa nel corso del Medioevo. Cordoba è stato il centro principale del califfato mondiale che è incorso di realizzazione da parte degli islamisti che imperversano ai nostri giorni: proprio quel califfato che Osama bin Laden e i suoi alleati cercano di restaurare. Una moschea gigantesca è stata costruita sulle rovine di una chiesa cattolica. Per gl’islamisti, erigere moschee sui territori degli sconfitti è un segno di soggezione, la sottomissione degl’infedeli alla vera legge di Allah.
    La triste ironia del caso è che la maggior parte delle vittime del fascismo islamico sono i musulmani stessi, i correligionari, massacrati da barbari medievali. La moschea di Ground Zero li disonora nella stessa misura che disonora ogni altra persona. Bloomberg avrebbe fatto la cosa giusta se si fosse opposto alla costruzione della moschea. Ma il suo comportamento mostra che il progressismo è privo di difese al cospetto del suprematismo islamico così come accade in tutta Europa. Gli Stati Uniti di Arabia sono arrivati.

[L'articolo è stato pubblicato in The Washington Times del 5 agosto 2010]






domenica 1 agosto 2010

L’ARIZONA DOVREBBE
FARE SECESSIONE?
L’attivismo della magistratura sta spingendo l’America fino al punto di rottura. Questa settimana, un giudice federale ha bloccato articoli essenziali della legge sull’immigrazione emanata dall’Arizona, ponendosi così contro la volontà del popolo. La sentenza è di cattivo auspicio e le sue conseguenze si faranno sentire negli anni a venire.
    Il giudice in questione, Susan Bolton, nominata dal presidente Bill Clinton, è una progressista, membro di una élite che si autopresume illuminata, che crede che l’imperialismo giudiziario sia l’asso di bastoni della democrazia. La sua sentenza stabilisce che la polizia locale non può accertare se coloro che vengono arrestati o fermati per aver violato la legge controllare hanno la condizione di immigrato o no. Secondo lei, farlo equivarrebbe a un abuso contro le libertà civili e concederebbe all’Arizona una facoltà spettante al solo federal immigration system. E stabilisce anche che ai residenti non può essere richiesto di esibire prove del loro status legale.
    La decisione della Bolton colpisce al cuore la legge dell’Arizona denominata “S. B. 1070”. Voluta dal Dipartimento per la Giustizia del presidente Obama e dalla American Civil Liberties Union, la sentenza pone le premesse per una lunga battaglia legale. Il governatore dell’Arizona signora Jan Brewer assicura che si appellerà con ogni mezzo contro la sentenza, fino ad arrivare alla Corte Suprema, se necessario e che, nel frattempo, il popolo dell’Arizona e dell’America continuerà a resistere all’aggressione dell’immigrazione illegale.
    La decisione di Obama di citare in giudizio l’Arizona è un tradimento del patto costituzionale che prevede di rendere sicura una frontiera come la nostra, ormai piena di buchi. La tesi dell’Amministrazione è che la "frontiera non è mai stata così sicura". E punta all’incremento massiccio delle guardie di frontiera e delle risorse dedicate alle tecnologie necessarie per far applicare la legge. Ma la realtà resta: i clandestini continuano ad attraversare tutti i giorni. L’Arizona è la casa di oltre mezzo milione di immigrati illegali. Phoenix è diventata la capitale americana dei rapimenti. I signori della droga messicani commissionano assassini di sceriffi dell’Arizona. Il crimine violento è ormai invasivo. Invece di aiutare la gente bisognosa di protezione, Obama si è messo di fatto dalla parte dei fuorilegge.    
    Con la legge dell’Arizona Obama sta giocando la carta della politica razziale. Sta deliberatamente soffiando sul fuoco delle tensioni etniche e tal fine dipinge falsamente la legge come un passo tale da portare a uno Stato repressivo di polizia nei confronti gl’ispanici. Ma la legge mette apposta al bando ogni caratterizzazione razziale: al contrario di quanto ha asserito mentendo il presidente, a un ispanico non può essere chiesto di mostrare il documento di residenza quando sta prendendo un gelato con i suoi bambini. Dirlo è un modo di fare discriminazioni razziali e manipolazione della peggiore specie.
    L’Amministrazione e i democratici al Congresso stanno facendo il seguente calcolo strategico: pensano che la legge dell’Arizona possa diventare popolare in breve tempo non solo lì ma in tutto il Paese, anche se sono convinti che a lungo andare la legge avrà un ritorno vantaggioso per i repubblicani, specialmente con un blocco elettorale ispanico in netta ascesa. Obama, demonizzando l’Arizona, crede di corteggiare con aggressività il voto dei latino. È il classico radicalismo alla Saul Alinsky [1]: la politica del divide et impera, che mette le razze e le classi una contro l’altra al servizio del potere dello Stato.
    La sentenza della Bolton accelera il programma radicale di Obama. La sua sentenza afferma in sostanza che l’America non può proteggere la sua sovranità nazionale. Il che equivale a un invito aperto agl’immigranti clandestini a venire a loro discrezione e con la massima garanzia dell’impunità. L’America, così, non è più un vero Stato nazionale capace di difendere i suoi confini geografici, la sua identità culturale e i suoi interessi nazionali. Al contrario si sta riducendo a una colonia del nuovo ordine modiale, caratterizzato dalla globalizzazione economica, dall’internazionalismo delle grandi corporation, dagli enti sovranazionali e dall’erosione delle frontiere, almeno di quelle degne di questo nome. La classe dirigente liberal vuole sradicare lo Stato-nazione per realizzare la sua utopia globalista e socialista: ecco perché disprezza le leggi federali sull’immigrazione e rifiuta di accettarle.
    La sentenza Bolton impedisce anche allo Stato di difendersi: è una forma di disarmo unilaterale del popolo dell’Arizona di fronte a un nemico pericoloso. Il governo federale ha mostrato a più riprese che non è in grado né è disposto a rendere sicure le frontiere. La legge dell’Arizona ha il sostegno della stragrande maggioranza degli arizoniani (70 per cento), come pure degli americani. È l’espressione collettiva della volontà popolare di difendere dai criminali le proprie case, la proprietà e la vita. È un modo per incorporare democraticamente in una legge la garanzia dei diritti derivanti da Dio alla vita, alla libertà e all’autogoverno.
    Ma il giudice Bolton e l’amministrazione Obama stanno instaurando una prassi neo-aristocratica, in cui giudici di sinistra, ovvero attivisti elitaristi in abito nero, passano sopra la legittimità democratica. E questo si traduce in una forma di autoritarismo morbido.
    In risposta alla controversa sentenza di John Marshall, Chief Justice della Corte Suprema nel 1832, il presidente Andrew Jackson ritenne di dire: «John Marshall ha emesso la sua sentenza, ora vediamo se gli riesce di farla rispettare». La Brewer dovrebbe prendere una pagina del taccuino di Old Hickory [2] e dire: il giudice Bolton ha emesso la sua sentenza, ora vediamo se è capace di farla rispettare.
    Il governatore dell’Arizona dovrebbe appoggiarsi allo zoccolo duro dei principi che sanciscono i diritti degli Stati e l’autogoverno democratico e imporre che la legge S. B. 1070 entri in vigore nonostante il divieto federale, cosa che farebbe aprire un confronto costituzionale fra la signora Brewer e Obama, l’Arizona e Washington. Che cosa farebbe allora il Dipartimento alla Giustizia? Porterebbe via in manette la signora Brewer e la getterebbe in prigione? In altri termini, il popolo dell’Arizona dovrebbe impegnarsi in una pacifica forma di disobbedienza civile.
    Per troppo tempo, i liberal hanno usato i tribunali per imporre la loro ingegneria sociale radicale a una popolazione recalcitrante: aborto, “matrimonio” fra omosessuali, pornografia, quote razziali, iniziative egualitaristiche, divieto di pregare nella scuola pubblica: tutte questioni che sono state risolte attraverso misure imposte da un corpo giudiziario imperialista schierato contro i desideri della maggioranza. La legge dell’Arizona è la riaffermazione dell’autogoverno democratico contro il Leviatano federale.
    L’Arizona è il luogo dove la vecchia repubblica resisterà in piedi oppure crollerà. Si tratta di uno scontro alla Mezzogiorno di fuoco: o l’America torna al suo sistema costituzionale basato sul federalismo autentico, sui diritti degli Stati, sulla libertà individuale e sulla decentralizzazione del potere, oppure continuerà a scivolare verso le tenebre di un Superstato socialista. Washington, con la sua burocrazia straripante, con la sua arroganza imperiale, con la sua dirompente corruzione e con il suo pericoloso distacco dal cittadino comune, è divenuta oggetto di disprezzo e di sfiducia per molti americani, che si traduce in una secessione morale e in una profonda alienazione del popolo dalla classe liberal al potere.
    In futuro, molti Stati, compresa l’Arizona, potranno dover decidere di non avere altra scelta se non di distaccarsi dall’Unione. La scelta diventa sempre più chiara: o devolution o dissoluzione.



[1] Saul David Alinsky (1909-1972), agitatore socialista di origini russo-ebraiche, di Chicago, uno degl’ispiratori culturali di Obama.
[2] Soprannome (“noce americano”, albero dal legno molto duro) di Jackson (1767-1845), settimo presidente degli Stati Uniti.

[L'articolo è statopubblicato su The WashingtronTimes il 29-7-2010]




lunedì 26 luglio 2010

FERMIAMO IL GOLPE SOCIALISTA
DEL PRESIDENTE

Martin Luther King: "Io ho un sogno"; il cittadino americano: con Obama "abbiamo un incubo"

      Il presidente Obama è coinvolto in un numero elevato di crimini e reati di Stato. La maggioranza democratica al Congresso è a rischio perché gli americani rifiutano il suo programma. Eppure c’è da fare ancora qualcosa: chiedere l’impeachment di Obama, perché egli sta lentamente costruendo — un pezzo doloroso dopo l’altro — una dittatura di stampo socialista. Non siamo ancora a quel punto, ma Obama sta avviando l’America su quel pericoloso percorso. Sta minando il nostro sistema costituzionale di controlli incrociati, sovvertendo le procedure democratiche e lo Stato di diritto, presiedendo un regime corrotto e gangsteristico e dando l’assalto ai pilastri fondamentali del capitalismo tradizionale. Proprio come l’uomo forte di sinistra del Venezuela, Hugo Chavez, Obama è deciso a imporre dall’alto una rivoluzione che polarizzi l’America lungo tre linee: razziale, politica e ideologica. Obama è il presidente più divisivo dai tempi di Richard Nixon. La sua politica stanno balcanizzando il Paese: è ora che se ne vada.
    Egli ha infatti abusato della sua funzione e violato il giuramento di rispettare la Costituzione. La sua revisione del sistema sanitario è stata estorta al Congresso, ma vi si opponeva e continua a opporvisi la maggioranza del popolo: è passata solo ricorrendo a mazzette e a intimidazioni politiche. Il "Louisiana Purchase", il "Cornhusker Kickback", i cinque miliardi di dollari per il Medicaid stanziati apposta per favorire il senatore Bill Nelson nel suo collegio in Florida: così il denaro dei contribuenti è stato usato praticamente come un fondo nero con cui comprare voti incerti.
    Come se non bastasse, la legge è manifestamente incostituzionale. Il governo federale non ha il diritto di costringere ogni cittadino ad acquistare un bene o un servizio: questo diritto non è riconosciuto nella Costituzione e rappresenta una espansione di potere senza precedenti.
    Ma il risvolto più nocivo dell’Obamacare è il finanziamento federale dell’aborto. I pro-life sono ora costretti a vedere le tasse che pagano usate per finanziare piani assicurativi che includono l’assassinio dei bambini non nati. Questo è qualcosa di più di un infanticidio di Stato: esso viola i diritti di coscienza dei cittadini religiosi. I tradizionalisti — evangelicali, cattolici, battisti, musulmani ed ebrei ortodossi — sono resi complici di un abominio che va contro i loro valori religiosi più profondi. All’entrata in vigore della legge (come in Pennsylvania) le conseguenze di questi stanziamenti per l’aborto diventeranno sempre più evidenti e il risultato sarà una guerra civile culturale. Inoltre, i pro-life saranno sempre più resi estranei alla società: in molti, sta già maturando una secessione interiore.
    Obama sta anche muovendo un assalto frontale contro il diritto di proprietà. La fuoriuscita di petrolio della BP è un esempio in materia. La BP è chiaramente responsabile della perdita e del massiccio danno economico e ambientale inflitto al Golfo. Mentre è in corso un processo legale per giudicare le denunce, Obama si è comportato in maniera più simile a quella di un Chavez o di un Vladimir Putin, intimando con un gesto di prepotenza alla BP di istituire un fondo di 20 miliardi di dollari per i risarcimenti, che sarà amministrato da un funzionario nominato da Obama. In altre parole, i beni di una compagnia privata vengono rapinati per finanziare un programma politico. Miliardi di dollari verranno così distribuiti arbitrariamente, come indennizzo per le vittime della fuoriuscita di petrolio, e la maggior parte andrà agli elettori democratici: questo si chiama favoritismo e autoritarismo strisciante.
    Il socialismo multiculturale di Obama, creando un sistema di assistenza sanitaria a controllo statale rigido, nazionalizzando di fatto le grandi banche, il settore finanziario, l’industria automobilistica e i sistemi di prestiti d’onore agli studenti, cerca di strappare l’America dalle sue radici tradizionali. La prossima tappa sarà l’approvazione della legge sulle emissioni di gas “cap-and-trade”, che porterà tutto il settore industriale e manifatturiero sotto il tallone del big government. Lo Stato sta infatti intervenendo in ogni ambito della vita americana, andando ben oltre i limiti previsti dalla Costituzione: sotto Obama la Costituzione si è trasformata in un inutile mucchietto di carta.
    Per fornirsi delle truppe d’assalto necessarie al suo golpe socialista, Obama chiede una “riforma globale dell’immigrazione”, che garantirebbe l’amnistia a dodici milioni di immigrati illegali su un totale di venti. Questa mossa darebbe palesemente vita a una maggioranza elettorale democratica permanente, che suonerebbe come rintocco funebre per la nostra sovranità nazionale. L’amnistia premia l’illegalità e il comportamento criminale e significa che le nostre già permeabili frontiere meridionali si apriranno a una massiccia invasione di clandestini. Tutto questo si traduce nella morte degli Stati Uniti come nazione: noi non saremo più un Paese, ma la colonia di un impero socialista globale.
    Invece di difendere la propria terra, il Dipartimento di Giustizia di Obama ha fatto causa all’Arizona per la sua legge sull’immigrazione, schierandosi con i criminali invece che con i cittadini americani. Le azioni di Obama profanano il giuramento presidenziale, prestato sulla Costituzione, di proteggere i cittadini degli Stati Uniti dai nemici interni ed esterni.  E, visto che Washington si rifiuta di proteggere i nostri confini, incoraggiando una immigrazione illegale ancora maggiore, la decisione di Obama in questo ambito ha i connotati del tradimento.
    In quanto Presidente, ci si aspetta che Obama rispetti lo Stato di diritto: ma, al contrario, la sua amministrazione ha fatto cadere le accuse di intimidazione elettorale formulate contro membri del Nuovo Partito delle Pantere Nere, malgrado il comportamento incriminato — uomini in abiti militari che brandivano bastoni e minacciavano i bianchi nei pressi dei seggi elettorali — fosse stato filmato e registrato. Un avvocato del Dipartimento della Giustizia coinvolto da vicino nel caso, J. Christian Adams, ha dato le dimissioni in segno di protesta. Adams sostiene che, con Obama, si è di fronte a una nuova politica: per i casi giudiziari che vedono imputate persone di colore e come vittime bianchi non vi è più luogo a procedere, indipendentemente da quanto le vittime alzeranno la voce per ottenere giustizia. Questo è più di un razzismo istituzionalizzato: è l’abrogazione delle leggi per i diritti civili. Il comportamento del Dipartimento di Giustizia è illegale. Esso costituisce una minaccia diretta contro l’integrità della nostra democrazia e contro il carattere inviolabile dei nostri procedimenti elettorali.
    La corruzione nell’Amministrazione è in forte crescita. A Washington non siede più un governo, ma un regime gangsteristico. I “metodi di Chicago” sono diventati i metodi di Washington. Il capo dello staff presidenziale Rahm Emanuel è un politico d’assalto, che agisce in maniera amorale e senza scrupoli: fu lui che andò a cercare Joe Sestak, democratico della Pennsylvania per offrirgli un incarico di alto livello nella speranza di persuaderlo a non sfidare alle primarie il senatore Arlen Specter. Lo stesso Emanuel ha offerto un’altra posizione di governo a Andrew Romanoff per fare la stessa cosa alle primarie per il Senato del Colorado. Ed è stato sempre lui — come è emerso nel corso del processo riguardante l’ex-governatore dell’Illinois Rod Blagojevich — ad agire come intermediario per far “paracadutare” Valerie Jarrett sul seggio senatoriale che era di Obama. La sola questione è: che cosa ha voluto Blagojevich in cambio?
    Questa non è semplicemente la politica delle manovre squallide, stile Chicago: è anche sistematica violazione della legge attraverso la corruzione, il tentativo di interferire e di manipolare le elezioni usando posti stipendiati con il denaro dei contribuenti, con il commercio d’influenze e con l’abuso di potere.
    L’errata percezione diffusa a destra è che Obama sia un altro Jimmy Carter, cioè un progressista incompetente la cui presidenza è destinata ad cadere in briciole sotto i colpi di un fallimento dopo l’altro. È vero, invece, l’esatto opposto: Obama è il più coerente fra i presidenti del nostro tempo, uno che cerca di trasformare l’America in qualcosa che i nostri padri fondatori troverebbero non solo irricevibile, ma addirittura ripugnante. Come tutti i rivoluzionari radicali, Obama non pensa altro che al potere, a mantenerlo e a esercitarlo massimizzandone l’efficacia: questo Stato di nuovi banditi voluto da Obama va assolutamente fermato.
    Se i Repubblicani riconquisteranno il Congresso a novembre, dovrebbero — e probabilmente lo faranno — aprire formali inchieste su questa amministrazione criminale e tormentata da scandali. Darrell Issa, repubblicano della California e autorevole membro della Commissione per la Tutela e le Riforme del Governo, ha promesso di farlo. Obama ha tradito il popolo americano e l’impeachment è l’unica risposta possibile: questo usurpatore va rovesciato.

[L'articolo è stato pubblicato su The WashingtonTimes il 23 luglio 2010]

venerdì 16 luglio 2010

IL BANDO DEI CONSERVATORI
CONTRO MICHAEL SAVAGE




    L’islam radicale ha conseguito una delle sue maggiori vittorie nella sua guerra contro l’Occidente. Ma il suo trionfo non è avvenuto sul campo di battaglia, né dopo che è esplosa una bomba, né dopo che è stato siglato un trattato di pace oppure presi ostaggi: si è tradotto nella resa di uno Stato e di una intera nazione ai neri artigli della “political correctness”.
    Il nuovo governo di coalizione britannico, guidato dal primo ministro conservatore David Cameron, ha deciso di mantenere il bando contro Michael Savage, il popolare ospite di talk-show alla radio. Savage, che vive a San Francisco, vanta più di otto milioni di ascoltatori su circa quattocento stazioni. Il suo è il terzo più gettonato talk-show in America. (In confidenza ho ospitato Savage ed egli mi ha ospitato in diverse occasioni.) Londra ha annunciate che il bando non sarà rimosso finché Savage non ripudi "precedenti dichiarazioni" ritenute "lesive" della sicurezza pubblica.
    Cameron ha mantenuto in vigore la decisione presa dal suo predecessore di sinistra, l’ex premier Gordon Brown, d'inserire Savage nella lista dei personaggi "poco desiderabili", che fà sì che il focoso conservatore possa entrare nel Regno Unito. Questa lista di persone ostili comprende anche noti estremisti islamici (inclusi terroristi di Hamas), neo-nazisti, un vecchio stregone del Ku Klux Klan e alcuni skinhead russi colpevoli di aver ucciso più di dieci immigrati. Secondo funzionari britannici, Savage fa parte della lista per un solo motivo: per incitamento "all’odio" e alla "violenza fra comunità". Per qusto si tratta di una pericolo pubblico che dev’essere tenuto lontano dalle spiagge britanniche.
    Il bando contro Savage rappresenta un assalto frontale contro la libertà di parola. Nel “mondo nuovo”[1] inglese, le parole di un ospite di talk-show sono considerate alla stessa stregua dei bombaroli suicidi e dei gangster: le idee devono essere messe fuorilegge e i crimini di coscienza soppressi.
    Inoltre, non c’è ombra di prova che Savage abbia mai o anche solo una volta incitato all’odio o esortato alla violenza contro chicchessia: le accuse in tal senso sono non solo prive di fondamento ma anche diffamatorie: si tratta di semplici bugie.
    Per anni, l’odio dei gruppi liberal come Media Matters[2] ha cercato di dipingere falsamente Savage e altri conservatori ospiti di trasmissioni radio (inclusa la vostra fedele radio) come virulenti neo-fascisti che sognano un regime di apartheid di destra che prenda a calci donne, minoranze, omosessuali e musulmani. E questa contorta e perversa caricatura propagandata dai sinistri è stata volontariamente “bevuta” dal governo inglese.
    Incapaci di vincere la battaglia delle idee, costoro ricorrono alla denigrazione e alla demonizzazione da quattro soldi. Lo scopo è delegittimare e criminalizzare chi pensa conservatore: oggi tocca a Savage, domani sarà il turno di Glenn Beck o di Sean Hannity di essere inseriti nella lista dei nemici pubblici dello Stato.
    Mettendo di proposito il nome di Savage a fianco di quello di assassini e di criminali, Londra gli ha dipinto un enorme bersaglio sulla schiena: estremisti islamici squilibrati potrebbero essere tentati di assassinarlo, pur di segnare un punto per il jihad. Savage è un uomo braccato: delle fatwa sono state emeses contro di lui: è il Salman Rushdie dei nostri giorni.
    La decisione di Cameron manifesta che la Gran Bretagna si è arresa all’ondata crescente dell’islam radicale. In alcune e-mail governative dell’anno scorso, si rivelava che funzionari britannici, legati all’ufficio di Brown, avevano già deciso di mettere Savage nell’elenco solo per "controbilanciare" l’alto numero di militanti musulmani. Lo scopo non era proteggere la Gran Bretagna, ma piuttosto si trattava di placare la sensibilità della sempre più forte e sempre più esigente comunità islamica del Paese. Savage è stato sacrificato sull’altare del multiculturalismo liberal.
    Per molti membri dell’establishment conservatore, Cameron è un modello per il GOP [Great Old Party, i repubblicani]. Ma è un secchione attraente, che ha trasformato il Partito Conservatore in un partito favorevole al big-government, all’ambientalismo e al progressimo sociale. È un falso "centrista" che attrae donne, abitanti dei sobborghi e minoranze. Rappresenta il laburista light, cioè un “tory” rosso che non ha la maldestra incompetenza di Brown. Cameron vuole iniettare altri miliardi nell’istruzione e nella sanità; sta chiedendo aumenti delle tasse per ridurre l’incredibile deficit inglese; rifiuta anche di prendere posizione contro la massiccia immigrazione illegale e contro la minaccia dell’islam politico.
    «Ancor prima che mi venisse detto che i conservatori inglesi avrebbero mantenuto il bando nei miei confronti, sapevo che questo giorno sarebbe venuto», ha detto Savage in una intervista. «Apparentemente, in Inghilterra non vi è stato nulla più di un cambiamento di manichino nel reparto».
    Savage ha ragione: Cameron è un falso conservatore, un coniglio sinistrorso mascherato da “thatcheriano” modernizzato. Il suo successo politico dovrebbe suonare come un avvertimento per i conservatori americani. Una socialdemocrazia all’europea porta alla creazione di un regime progressista permanente, dove il solo punto di scontro fra i due partiti maggiori non è se lo Stato-balia debba esistere, ma chi è più capace di governarlo. È un segnale pericoloso che molti strateghi repubblicani si stiano facendo araldi del genere di conservatorismo di Cameron.
    Dalla fine della Guerra Fredda, il GOP e il Partito Democratico si sono andati trasformando in una oligarchia statalista basata sulle grandi corporation che si batte per le frontiere aperte e per il libero commercio. Il risultato è stato la graduale dissoluzione dell’America. Le nostre frontiere sono una piaga sanguinante; l’immigrazione incontrollata è sfrenata; la nostra infrastruttura industriale si riduce; le fabbriche e i posti di lavoro sono appaltati all’estero; la classe media e la classe operaia stanno affondando; la spesa pubblica è fuori controllo; il debito pubblico sta esplodendo; e interessi di parte dominano a Washington: l’America tradizionale sta morendo.
    A differenza della maggior parte dei conservatori, Savage non è un globalista: è un nazionalista del tipo “sangue e terra”, che capisce che la salvezza dell’America riposa sul ritorno alle sue profonde radici giudeo-cristiane, allo Stato costituzionale, alla famiglia, alla fede e al patriottismo: non è disposto ad adatatrsi né alla globalizzazione economica, né ai miti del multiculturalismo.
    Ed è questo il vero crimine: sia per la sinistra internazionalista, sia per la destra globalista, le sue vedute tradizionaliste sono fuori moda e fuori del tempo e anche un tantino pericolose. In ultima analisi, ecco perché Cameron ha deciso di confermare il bando. E anche il motivo per cui la maggior parte dei repubblicani e dei conservatori mantiene un silenzio assordante: Savage non è uno dei loro. Ecco perché non alzeranno un ditto in sua difesa: il suo roccioso nazionalismo non è il benvenuto nel GOP di oggi di Newt Gingrich, di Karl Rove e di Rush Limbaugh.
    «[Il fatto] dovrebbe rappresentare una lezione per chiunque pensi che se i repubblicani vinceranno il prossimo novembre vi sarà un cambiamento reale», ha detto Savage. «Proprio come i conservatori inglesi che hanno continuato la politica fallimentare del sinistrorso Gordon Brown, la maggior parte dei repubblicani proseguirà nella stessa politica devastante che il [Presidente] Obama ha avviato».
    Se ciò è vero, allora il Partito Repubblicano merita di finire nella spazzatura della storia. Il GOP dovrebbe insistere affinché il Segretario di Stato Hillary Rodham Clinton faccia pressione su Londra perché revochi il bando. La libertà di parola e quella di espressione sono le pietre angolari della civiltà occidentale. Se non saranno difese, morranno di una morte lenta, altra vittima dell’inarrestabile marcia di conquista islamista.
[1] Brave new world è il titolo originale del romanzo di Aldous Leonard Huxley (1894-1963) Un mondo nuovo (trad. it., Il mondo nuovo e Ritorno al mondo nuovo, traduzione di Lorenzo Gigli, Mondadori, Milano 1991), che immagina l’Inghilterra del futuro sotto un regime tecnocratico, totalitario e poliziesco (ndr).
[2] Media matters è un sito web progressista che monitora i media americani (ndr). 
[L'articolo è stato pubblicato su The Washington Times del 15 luglio 2010]

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