"RIGHT IS RIGHT, LEFT IS WRONG"

venerdì 5 novembre 2010

Un presidente monomandato


Il Presidente Obama ha perso qualcosa di più che non una semplice elezione di medio termine: ha perso la sua legittimazione morale e politica. Martedì scorso [3 novembre 2010] gli elettori hanno del tutto ripudiato la politica socialista di Obama. I democratici hanno perso la Camera dei Rappresentanti sotto una storica valanga di voti contrari, e i repubblicani del GOP hanno conquistato almeno 60 seggi. Al Senato, la maggioranza democratica è stata considerevolmente ridimensionata e il programma di governo dei liberal è morto.
    Obama ha male interpretato il mandato elettorale ricevuto nel 2008, impegnandosi nel tentativo di creare uno Stato di diritto di stile europeo. Invece di risanare l’economia, ha scelto la strada della glorificazione personale e dell’arroganza, conquistandosi così la fama del presidente più radicale della storia degli Stati Uniti.
    La presidenza Obama è uno spartiacque in quanto, da rivoluzionario, egli ha invocato apertamente un cambiamento e una trasformazione del Paese. E i libri di storia mostreranno che, durante i primi anni della sua amministrazione, ci è riuscito, almeno temporaneamente.
    Il suo programma di stimolo economico da 814 miliardi di dollari è stato un esperimento di neo-keynesianismo radicale. Il governo federale ha sostanzialmente nazionalizzato il settore dell’automobile, le imprese assicurative, il sistema bancario e i prestiti d’onore agli studenti. La riforma per il controllo della finanza, blindata perché “troppo grossa per fallire”, ha reso i “salvataggi” statali una struttura permanente dell’economia. La Environmental Protection Agency ha stabilito che il carbonio è un “inquinante” e ha spianato così la via a una massiccia legislazione ambientalista, che pesa sull’industria manifatturiera, raggiungendo l’obiettivo di partenza del “cap-and-trade”, cioè ridurre le emissioni di carbonio e spingere in alto i costi del suo utilizzo, ma surrettiziamente.
    Inoltre, la spesa pubblica ammonta al 25% del nostro PIL. Il disavanzo di migliaia di miliardi di dollari prodotto da Obama sta seppellendo l’America sotto una marea d’inchiostro rosso. Il debito nazionale si sta avvicinando al 100% del PIL, cioè a un livello dal quale nessun Paese può riprendersi: siamo sulla soglia della bancarotta.
    In breve, Obama ha lasciato impresso il suo marchio progressista sulla società. Molti liberal guarderanno alla prima parte del suo mandato come a una sorta di età dell’oro, come al momento culminante del liberalismo radicale della Great Society di Johnson e del New Deal di Roosevelt. In effetti, in questi anni il partito democratico è stato preso in ostaggio dai radicali e dai fanatici ideologici post-sessantottini.
    Comunque, nonostante l’umiliante sconfitta, i leader dei democratici non riescono — né lo vogliono — ad ammettere che devono cambiare rotta. Nella conferenza-stampa di mercoledì scorso, Obama ha insistito caparbiamente sostenendo che le sue più importanti decisioni sono state “difficili”, ma “giuste”. La versione della Casa Bianca è che gli elettori sono stati delusi dall’economia in sofferenza e dalla lentezza della ripresa, il che è in certa misura vero.
    Ma quello che gli elettori capiscono e che Obama non capisce è che è stata la sua politica a peggiorare di molto le cose. La spesa per gli stimoli all’economia non solo non è riuscita a tenere la disoccupazione al di sotto dell’8%, ma è stata anche un massiccio sperpero, un enorme dispendio di dollari dei contribuenti, ipotecando il futuro dei nostri figli e producendo deficit megagalattici. Il pesante portato dell’Obamacare, gli enormi aumenti di tasse e l’inasprimento del controllo sul settore finanziario hanno messo a rischio il business e stornato il capitale d’investimento. Il settore privato, motore della crescita e dell’occupazione, è stato soffocato dal liberalismo statalista. Il risultato è che la disoccupazione è aumentata, mentre si profila lo spettro di una forte inflazione e l’inizio di una fase di stagnazione economica.
    La nazione sta perdendo speranza: Obama ha ereditato una recessione e l’ha trasformata in depressione, dimostrando ancora una volta che il liberalismo radicale è un disastro.
    Ma Obama non virerà verso il centro, come fece Bill Clinton agli esordi della rivoluzione repubblicana del 1994. Il comandante in capo è un ideologo ed è determinato a consolidare quello che ha realizzato in campo legislativo. Ma si scaverà il terreno sotto i piedi, se respingerà i tentativi del GOP di ridimensionare il suo Stato progressista e controllore. Insieme al leader della maggioranza senatoriale Harry Reid, Obama difenderà la sua eredità a tutti i costi. Non permetterà che l’Obamacare venga respinto, e neppure che sia in gran parte modificato. La spesa non sarà tagliata. Il disavanzo galoppante non sarà ridotto. La nazione dei “salvataggi” dello Stato continuerà a esistere.
    Ecco perché Obama è destinato a essere un presidente “one-term”, un presidente, cioè, "monomandato". E lo sa bene, benché paia non curarsene. Come ebbe modo di dire a un intervistatore nei primi tempi del suo mandato, Obama preferisce essere un “grande presidente monomandato”, piuttosto che un “mediocre” presidente “da doppio mandato”. E “grande”, per Obama, vuol dire: “che impone il socialismo utopistico”.
    La grande verità del liberalismo radicale — cosa che Obama, Reid e Nancy Pelosi afferrano tutti fin troppo bene — è che la politica può influenzare e modellare la cultura. E il liberalismo radicale favorisce la cultura della dipendenza e del vittimismo, secondo cui il potere dello Stato è la risorsa decisiva per la realizzazione dell’uomo e che, cioè, in essenza, sostituisce la fede nello Stato a quella in Dio.
    La grande verità del conservatorismo, invece, è che la cultura è più importante della politica, anche se, nonostante questa consapevolezza, i conservatori si sono rivelati decisamente deboli nel combattere lo statalismo. I repubblicani hanno promesso che avrebbero respinto ogni significativa estensione del Welfare State, ma non ci sono riusciti. Il New Deal è stato mantenuto e la Great Society, sebbene erosa ai margini, rimane intatta.
    La domanda è: possono i rinati repubblicani fare finalmente a Obama quello che non sono stati capaci di fare a Franklin Roosevelt e a Lyndon Johnson?
    Obama scommette di no, e baserà la sua restante presidenza su questa scommessa.
    Ne consegue che gli elettori probabilmente dovranno finire nel 2012 il compito che hanno appena intrapreso: porre fine a questo storico assalto alle istituzioni americane.

[L'articolo è apparso su The Washington Times del 5 novembre 2010]


giovedì 4 novembre 2010

L’impero di Soros
Il miliardario megalomane minaccia
i valori americani



Riecco George Soros. Il noto miliardario sinistrorso ha scritto questa settimana una nota apparsa nella sezione degli editoriali del Wall Street Journal in cui chiede la legalizzazione della marijuana. Soros sostiene “Proposizione 19”, il referendum californiano che si terrà [si è tenuto, con esito negativo per i proponenti (ndr)] il 3 novembre, che vorrebbe legalizzare il possesso di modiche quantità di marijuana e consentire la sua coltivazione fra le mura domestiche.
    “Proposizione 19” è solo un importante passo verso la meta ultima di Soros: la legalizzazione di quasi tutte le droghe pesanti, incluse la cocaina e l’eroina. Si tratta di una causa che Soros ha sposato e finanziato per decenni e che, se vinta, avvicinerebbe l’America al suo modello di socialdemocrazia permissiva di stampo europeo.
    La diffusione delle droghe, distruggendo la vita (e il cervello) di milioni di americani, minaccia la fabbrica stessa della nostra società. E favorisce l’abuso sui bambini, la violenza domestica, il crimine, le nascite illegittime, l’AIDS e il degrado sociale: è un flagello pubblico e il suo uso non dovrebbe essere né incoraggiato, né sanzionato legalmente, bensì sradicato.
    A Soros non importa nulla che la legalizzazione si traduca in una crescita delle morti per droga e in più alte percentuali di dipendenza, specialmente fra bambini e adolescenti: Soros è un esponente della "cultura della morte". Aborto, ateismo, pornografia, matrimonio omosessuale, eutanasia e suicidio assistito sono tutti punti-chiave del programma progressista di Soros.
    Le élite mediatiche danno scarso risalto a Soros e alle sue nefaste attività perché ne condividono la filosofia politica. Ecco perché rifiutano di far luce sul suo comportamento clandestino, rapace e immorale. Sono suoi complici che ne coprono i loschi, manipolatori e deleteri traffici e velano le sue opinioni neo-marxiste radicali.
    Soros è il “paparino”del Partito Democratico e della sinistra moderna. Il suo patrimonio netto, che ammonta a più di sette miliardi di dollari, fa di lui uno dei più ricchi e dei più influenti uomini al mondo. E quasi tutte le maggiori organizzazioni, think tank o canali mediatici liberal sono stati beneficiati dalla liberalità di Soros: il periodico The Nation, Mother Jones, Media Matters, MoveOn.org, NPR e il Center for American Progress nel complesso hanno ricevuto milioni di dollari dal finanziere. Essi fungono da gruppi di frangia e da veicoli di propaganda per promuovere il tipo di socialismo transnazionale che piace a Soros.
   Soros ha versato centinaia di milioni di dollari al vecchio blocco comunista. L’ex impero dei Soviet era diventato addirittura l’impero di Soros: era lui che lavorava dietro le quinte per destabilizzare e per influenzare Stati come la Croazia, la Slovacchia, la Serbia, la Georgia, il Kosovo e l’Ucraina, in cambio delle loro risorse naturali.
    Soros è un imperialista liberal che opera per instaurare un governo unico mondiale; è rabbiosamente contro il capitalismo; è in favore dell’innalzamento delle tasse, della spesa pubblica esagerata, dello statalismo del welfare, di una massiccia ridistribuzione della ricchezza ai poveri e di uno stretto controllo del sistema finanziario internazionale. Disprezza il senso nazionale e l’eredità giudeo-cristiana dell’Occidente. Il suo obiettivo è quello d’introdurre il mondo a un nuovo ordine globale basato sul materialismo scientifico e sull’ingegneria sociale progressista.
    Soros è un deciso sostenitore dell’amnistia per gl’immigranti illegali e dell’abbattimento delle frontiere con il Messico e con il Canada; secondo lui, la religione, gli Stati-nazione e la famiglia sono istituti repressivi e antiquati che vanno aboliti; è così il nemico della democrazia e dell’America.
    Durante la presidenza di George W. Bush, Soros chiese un “regime change” e spese quasi 25 milioni di dollari nella speranza di sconfiggere Bush nel 2004, non riuscendovi solo per un pelo.
    Il miliardario sta favorendo il caos finanziario per svalutare la nostra moneta. Soros sta scommettendo contro il dollaro Usa, cercando di minarne il valore sui mercati globali: distruggete il dollaro e la potenza economica dell’America crollerà con esso. Soros vuol ripetere il suo leggendario assalto del 1992 alla sterlina britannica, con il quale quasi riuscì a far fare bancarotta alla Banca centrale e provocò una crisi economica che costrinse i contribuenti inglesi a pagarne un caro conto. Soros fece allora la figura del bandito, intascando quasi un miliardo di dollari dal suo piano di manipolazione delle valute.
    Soros è altresì uno scaltro studioso di storia: come Leon Trotsky, uno dei padri della Rivoluzione bolscevica del 1917, egli crede che fomentare la crisi permanente aiuti la rivoluzione permanente: una prolungata crisi economica, infatti, decimerebbe la classe media e comporterebbe l’accettazione di un intervento statale senza precedenti: questo è quanto egli ha sperato accadesse negli scorsi anni.
    Soros è un ipocrita: vuole tasse più alte sulla ricchezza e una più stretta regolamentazione delle corporation. Ma il suo fondo d’investimento è registrato nelle Antille Olandesi, il che gli consente di schivare le tasse sui redditi e sui dividendi imposte dallo Zio Sam. I suoi investimenti e il suo denaro sono custoditi in conti offshore, lontano dagli artigli dell’Internal Revenue Service o dall’occhio vigile della Securities and Exchange Commission. Nel 2002, è stato imputato in Francia per insider trading. Non solo: Soros ha interessi finanziari legati ai cartelli della droga latinoamericani. Per esempio, è stato detto che abbia una partecipazione di maggioranza nel Banco de Colombia, istituto noto come lavanderia del denaro dei signori della droga: in breve, Soros pensa che le regole a lui non si applichino.
    Egli è in sostanza un megalomane amorale disconnesso dalla realtà. Si autodefinisce “il boss dei papi”, ammettendo di provare impulsi messianici. «Immagino me stesso come una sorta di dio», ha detto una volta. E ha continuato sottolineando che «in verità, mi fanno compagnia fin dall’infanzia alcune fantasie messianiche abbastanza potenti, che mi accorgo di dover controllare, per evitare che mi creino problemi». Ma Soros sostiene che ha imparato a venir a patti con esse, nel momento in cui ha abbracciato il suo destino storico mondialista. «È una sorta di malattia quando uno si considera in qualche modo figlio di dio, il creatore di tutto: ma adesso non ho più problemi, poiché ho cominciato a esserlo».
    Il fatto che Soros sia la potenza alle spalle del regime di Obama rivela la bancarotta morale e intellettuale di questo e quanto sia profondo il fallimento del liberalismo. Invece che essere considerato un eroe e un benefattore, Soros dovrebbe costituire ovunque un fattore d’imbarazzo per i liberal, dal momento che egli si pone come chiaro e immediato pericolo per la repubblica e per i suoi valori fondativi.
    Se i repubblicani riprenderanno il controllo del Congresso [come è accaduto], dovrebbero lanciare una inchiesta sulle attività politiche nefaste e sulle losche manovre finanziarie di Soros. Soros ha dichiarato guerra ai conservatori e ora tocca a noi dichiarare guerra contro di lui.

[L'articolo è apparso su The Washington Times del 28 ottobre 2010]

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