"RIGHT IS RIGHT, LEFT IS WRONG"

venerdì 6 agosto 2010


BENVENUTI NEGLI STATI UNITI D'ARABIA




L’America è vicina alla resa nella guerra contro l’islam radicale. È questo il vero senso della decisione di costruire una moschea e un centro culturale islamico di tredici piani a meno di duecento metri da Ground Zero. Una commissione comunale di New York City ha dato il via libera martedì al progetto, nonostante la forte opposizione di molte famiglie delle vittime degli attacchi suicidi dell’11 settembre 2001. La maggior parte dei newyorkesi e degli americani non vuole che la moschea sia eretta: sarebbe un monumento-simbolo del trionfo dell’islamismo negli Stati Uniti.
    Ground Zero è qualcosa di più del luogo dov’è crollato il World Trade Center: non è solo dove è stato commesso un enorme crimine, ma piuttosto il luogo di un atto di guerra, un terreno sacro che contiene il sangue di tremila esseri umani, in gran parte americani, assassinati in quel giorno fatale. Come Pearl Harbor, è un santuario nazionale da dedicare alla memoria delle vittime, un eterno memoriale dell’atrocità perpetrata dal fascismo islamico su suolo statunitense.
    Gli attacchi dell’11 settembre sono stato commissionati in nome della guerra santa contro l’Occidente da estremisti musulmani che hanno usato il Corano e i principi dell’islam per giustificare le loro azioni. Il loro scopo era di portare il jihad in America, scatenando lo scontro di civiltà. In tutto il mondo gl’islamisti cercano d’imporre un impero mondiale musulmano basato sulla legge della sharia. Ground Zero è dove la Guerra è tornata di casa in America.
    Ecco perché costruire questa moschea è un sacrilegio, uno schiaffo intenzionale sul volto delle vittime, delle loro famiglie e di tutti gli americani. Ecco perché gli sponsor di questo progetto rifiutano di fare marcia indietro. Sanno infatti qual è la posta in gioco: la moschea getterà una gigantesca ombra oscura su Ground Zero, fungendo da attestato della conquista islamistica dell’America. Se I’islamismo può imporre la sua volontà nei pressi del luogo dell’11 settembre, allora può imporre il suo volere ovunque.
    L’imam che promuove l’iniziativa, Feisal Abdul Rauf, è un militante musulmano incallito, un compagno di strada degl’islamisti, ilquale ha detto pubblicamente che «la politica statunitense è stata complice» degli attacchi dell’11 settembre. In altri termini, secondo lui, gli americani avrebbero attirato quelle atrocità su di loro. È un difensore di Hamas, che giustifica l’omicidio di massa di ebrei (e palestinesi) innocenti. Ha richiesto l’introduzione in America delle corti di giustizia secondo la sharia. In breve, propugna apertamente l’islamizzazione dell’America.
    Rauf è il tipico islamista ipocrita che usa la Costituzione americana per domandare il libero esercizio della religione, nel momento stesso in cui reclama la shariah, che confonde chiesa e stato e cerca di asservire i non musulmani. Gl’islamisti stanno usando le nostre libertà nello sforzo di distruggerle.
    Inoltre, molti dei cento milioni di dollari per la moschea vengono dall’Arabia Saudita. Riyadh ha sostenuto attivamente la costruzione di madrasse e di moschee nel mondo. Il regime saudita promuove il wahhabismo, una forma particolarmente virulenta di islam. Per esempio, le chiese cristiane e le sinagoghe sono vietate nell’Arabia Saudita e la persecuzione religiosa è furibonda. Ma nessuno, né il sindaco di New York Michael Bloomberg, né il Procuratore generale dello Stato Andrew Cuomo né altri i bigotti liberal sostenitori della moschea di Ground Zero, si è preso la briga d’indagare sulle origini dei fondi di Rauf. Vi sono i wahhabisti ditero la moschea? Se è così, essa diventerà probabilmente un forum di odio e di estremismo, prioprio come la moschea finanziata dai sauditi nel Nord Virginia dove il chierico Anwar al-Awlaki, legato ad al-Qaeda, predicava le virtù del jihadismo.
    Invece di farsi carico del problema, i liberal come Bloomberg si ammantano della bandiera della libertà religiosa. «Il luogo del World Trade Center avrà sempre un posto speciale nella nostra città e nei nostri cuori», ha detto il sindaco. «Ma saremmo infedeli alla parte migliore di noi stessi e di chi è newyorchese e americano, se dicessimo di no alla moschea a Lower Manhattan».
    Rauf sostiene anche che la sua finalità è eminentemente la tolleranza: per promuovere “mutua comprensione” fra le culture e il dialogo interreligioso. Oltre a ciò, argomentano i sostenitori della moschea di Ground Zero, il centro culturale sarebbe costruito non sul luogo esatto del World Trade Center, ma due isolati più in là. Ma il vero problema è la vicinanza. La moschea di Ground Zero fa infuriare così tanta gente perché l’edificio che l’ospiterebbe è stato danneggiato materialmente dai detriti del crollo delle torri durante l’assalto dell’11 settembre. La sua collocazione è fra le macerie, cade all’interno del campo di battaglia, nell’immediata cerchia in cui gli attacchi si sono verificati. Ecco perché il problema esacerba così gli animi di molte persone ferite.
    La libertà religiosa è un diversivo. I musulmani sono liberi di costruire moschee ovunque tranne che a New York o in America. Se Rauf fosse affidabile sul fatto di consolidare la pacifica convivenza delle religioni, potrebbe e dovrebbe scegliere un’altra e più ideale collocazione nella comunità dei residenti. La reazione è stata furibonda e appassionata: il timore e la rabbia tra le famiglie delle vittime sono stati palpabili. Ma i loro sentimenti non sono stati presi in considerazione. Sono stati ignorati e persino ammoniti. Rauf potrebbe porre fine a tutto ciò con un gesto di rispetto e di buona volontà. Ma non lo farà, e questo equivale a parlare meglio di interi volumi, anche se il suo programma ideologico proclama compassione e senso comune. La battaglia sulla moschea di Ground Zero è qualcosa di più di una battaglia della guerra culturale calda. È uno spartiacque: è il punto nel quale il multiculturalismo liberal ha capitolato nei confronti della inarrestabile marcia dell’islam politico. I musulmani radicali in tutto il mondo vedranno giustamente tutto ciò come un trionfo sull’inetto americano infedele. Persino il luogo del più mortale attacco portato contro l’America non è libero dalla incombente presenza dell’slam. Questo avvenimento significa la perdita e la sconfitta della volontà e dell’impegno americani nella lotta contro il jihad.
    Non è una coincidenza che il nome della moschea, Cordoba House, sia ripreso dalla città della Spagna meridionale che segnò una delle più grandi conquiste del radicalismo islamico in Europa nel corso del Medioevo. Cordoba è stato il centro principale del califfato mondiale che è incorso di realizzazione da parte degli islamisti che imperversano ai nostri giorni: proprio quel califfato che Osama bin Laden e i suoi alleati cercano di restaurare. Una moschea gigantesca è stata costruita sulle rovine di una chiesa cattolica. Per gl’islamisti, erigere moschee sui territori degli sconfitti è un segno di soggezione, la sottomissione degl’infedeli alla vera legge di Allah.
    La triste ironia del caso è che la maggior parte delle vittime del fascismo islamico sono i musulmani stessi, i correligionari, massacrati da barbari medievali. La moschea di Ground Zero li disonora nella stessa misura che disonora ogni altra persona. Bloomberg avrebbe fatto la cosa giusta se si fosse opposto alla costruzione della moschea. Ma il suo comportamento mostra che il progressismo è privo di difese al cospetto del suprematismo islamico così come accade in tutta Europa. Gli Stati Uniti di Arabia sono arrivati.

[L'articolo è stato pubblicato in The Washington Times del 5 agosto 2010]






domenica 1 agosto 2010

L’ARIZONA DOVREBBE
FARE SECESSIONE?
L’attivismo della magistratura sta spingendo l’America fino al punto di rottura. Questa settimana, un giudice federale ha bloccato articoli essenziali della legge sull’immigrazione emanata dall’Arizona, ponendosi così contro la volontà del popolo. La sentenza è di cattivo auspicio e le sue conseguenze si faranno sentire negli anni a venire.
    Il giudice in questione, Susan Bolton, nominata dal presidente Bill Clinton, è una progressista, membro di una élite che si autopresume illuminata, che crede che l’imperialismo giudiziario sia l’asso di bastoni della democrazia. La sua sentenza stabilisce che la polizia locale non può accertare se coloro che vengono arrestati o fermati per aver violato la legge controllare hanno la condizione di immigrato o no. Secondo lei, farlo equivarrebbe a un abuso contro le libertà civili e concederebbe all’Arizona una facoltà spettante al solo federal immigration system. E stabilisce anche che ai residenti non può essere richiesto di esibire prove del loro status legale.
    La decisione della Bolton colpisce al cuore la legge dell’Arizona denominata “S. B. 1070”. Voluta dal Dipartimento per la Giustizia del presidente Obama e dalla American Civil Liberties Union, la sentenza pone le premesse per una lunga battaglia legale. Il governatore dell’Arizona signora Jan Brewer assicura che si appellerà con ogni mezzo contro la sentenza, fino ad arrivare alla Corte Suprema, se necessario e che, nel frattempo, il popolo dell’Arizona e dell’America continuerà a resistere all’aggressione dell’immigrazione illegale.
    La decisione di Obama di citare in giudizio l’Arizona è un tradimento del patto costituzionale che prevede di rendere sicura una frontiera come la nostra, ormai piena di buchi. La tesi dell’Amministrazione è che la "frontiera non è mai stata così sicura". E punta all’incremento massiccio delle guardie di frontiera e delle risorse dedicate alle tecnologie necessarie per far applicare la legge. Ma la realtà resta: i clandestini continuano ad attraversare tutti i giorni. L’Arizona è la casa di oltre mezzo milione di immigrati illegali. Phoenix è diventata la capitale americana dei rapimenti. I signori della droga messicani commissionano assassini di sceriffi dell’Arizona. Il crimine violento è ormai invasivo. Invece di aiutare la gente bisognosa di protezione, Obama si è messo di fatto dalla parte dei fuorilegge.    
    Con la legge dell’Arizona Obama sta giocando la carta della politica razziale. Sta deliberatamente soffiando sul fuoco delle tensioni etniche e tal fine dipinge falsamente la legge come un passo tale da portare a uno Stato repressivo di polizia nei confronti gl’ispanici. Ma la legge mette apposta al bando ogni caratterizzazione razziale: al contrario di quanto ha asserito mentendo il presidente, a un ispanico non può essere chiesto di mostrare il documento di residenza quando sta prendendo un gelato con i suoi bambini. Dirlo è un modo di fare discriminazioni razziali e manipolazione della peggiore specie.
    L’Amministrazione e i democratici al Congresso stanno facendo il seguente calcolo strategico: pensano che la legge dell’Arizona possa diventare popolare in breve tempo non solo lì ma in tutto il Paese, anche se sono convinti che a lungo andare la legge avrà un ritorno vantaggioso per i repubblicani, specialmente con un blocco elettorale ispanico in netta ascesa. Obama, demonizzando l’Arizona, crede di corteggiare con aggressività il voto dei latino. È il classico radicalismo alla Saul Alinsky [1]: la politica del divide et impera, che mette le razze e le classi una contro l’altra al servizio del potere dello Stato.
    La sentenza della Bolton accelera il programma radicale di Obama. La sua sentenza afferma in sostanza che l’America non può proteggere la sua sovranità nazionale. Il che equivale a un invito aperto agl’immigranti clandestini a venire a loro discrezione e con la massima garanzia dell’impunità. L’America, così, non è più un vero Stato nazionale capace di difendere i suoi confini geografici, la sua identità culturale e i suoi interessi nazionali. Al contrario si sta riducendo a una colonia del nuovo ordine modiale, caratterizzato dalla globalizzazione economica, dall’internazionalismo delle grandi corporation, dagli enti sovranazionali e dall’erosione delle frontiere, almeno di quelle degne di questo nome. La classe dirigente liberal vuole sradicare lo Stato-nazione per realizzare la sua utopia globalista e socialista: ecco perché disprezza le leggi federali sull’immigrazione e rifiuta di accettarle.
    La sentenza Bolton impedisce anche allo Stato di difendersi: è una forma di disarmo unilaterale del popolo dell’Arizona di fronte a un nemico pericoloso. Il governo federale ha mostrato a più riprese che non è in grado né è disposto a rendere sicure le frontiere. La legge dell’Arizona ha il sostegno della stragrande maggioranza degli arizoniani (70 per cento), come pure degli americani. È l’espressione collettiva della volontà popolare di difendere dai criminali le proprie case, la proprietà e la vita. È un modo per incorporare democraticamente in una legge la garanzia dei diritti derivanti da Dio alla vita, alla libertà e all’autogoverno.
    Ma il giudice Bolton e l’amministrazione Obama stanno instaurando una prassi neo-aristocratica, in cui giudici di sinistra, ovvero attivisti elitaristi in abito nero, passano sopra la legittimità democratica. E questo si traduce in una forma di autoritarismo morbido.
    In risposta alla controversa sentenza di John Marshall, Chief Justice della Corte Suprema nel 1832, il presidente Andrew Jackson ritenne di dire: «John Marshall ha emesso la sua sentenza, ora vediamo se gli riesce di farla rispettare». La Brewer dovrebbe prendere una pagina del taccuino di Old Hickory [2] e dire: il giudice Bolton ha emesso la sua sentenza, ora vediamo se è capace di farla rispettare.
    Il governatore dell’Arizona dovrebbe appoggiarsi allo zoccolo duro dei principi che sanciscono i diritti degli Stati e l’autogoverno democratico e imporre che la legge S. B. 1070 entri in vigore nonostante il divieto federale, cosa che farebbe aprire un confronto costituzionale fra la signora Brewer e Obama, l’Arizona e Washington. Che cosa farebbe allora il Dipartimento alla Giustizia? Porterebbe via in manette la signora Brewer e la getterebbe in prigione? In altri termini, il popolo dell’Arizona dovrebbe impegnarsi in una pacifica forma di disobbedienza civile.
    Per troppo tempo, i liberal hanno usato i tribunali per imporre la loro ingegneria sociale radicale a una popolazione recalcitrante: aborto, “matrimonio” fra omosessuali, pornografia, quote razziali, iniziative egualitaristiche, divieto di pregare nella scuola pubblica: tutte questioni che sono state risolte attraverso misure imposte da un corpo giudiziario imperialista schierato contro i desideri della maggioranza. La legge dell’Arizona è la riaffermazione dell’autogoverno democratico contro il Leviatano federale.
    L’Arizona è il luogo dove la vecchia repubblica resisterà in piedi oppure crollerà. Si tratta di uno scontro alla Mezzogiorno di fuoco: o l’America torna al suo sistema costituzionale basato sul federalismo autentico, sui diritti degli Stati, sulla libertà individuale e sulla decentralizzazione del potere, oppure continuerà a scivolare verso le tenebre di un Superstato socialista. Washington, con la sua burocrazia straripante, con la sua arroganza imperiale, con la sua dirompente corruzione e con il suo pericoloso distacco dal cittadino comune, è divenuta oggetto di disprezzo e di sfiducia per molti americani, che si traduce in una secessione morale e in una profonda alienazione del popolo dalla classe liberal al potere.
    In futuro, molti Stati, compresa l’Arizona, potranno dover decidere di non avere altra scelta se non di distaccarsi dall’Unione. La scelta diventa sempre più chiara: o devolution o dissoluzione.



[1] Saul David Alinsky (1909-1972), agitatore socialista di origini russo-ebraiche, di Chicago, uno degl’ispiratori culturali di Obama.
[2] Soprannome (“noce americano”, albero dal legno molto duro) di Jackson (1767-1845), settimo presidente degli Stati Uniti.

[L'articolo è statopubblicato su The WashingtronTimes il 29-7-2010]




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