"RIGHT IS RIGHT, LEFT IS WRONG"

venerdì 30 aprile 2010

LA POLITICA DI OBAMA
PORTA ALLO SCONTRO
RAZZIALE?

 


Il Presidente Obama incita alla divisione razziale. Egli teme, a ragione, che i democratici subiranno forti perdite nelle elezioni di metà mandato per il Congresso che si terranno a novembre. I repubblicani sono a un passo dal riprendere il controllo sulla Camera dei Deputati e anche la partita al Senato potrebbe rivelarsi aperta. La presa del partito di Obama sul potere è minacciata e, con essa, il programma radicalsocialista del Presidente.
    La paura alimenta la disperazione: ecco perché Obama ha deciso di ricorrere alla peggiore demagogia e di giocare la carta razziale. In un video indirizzato ai democratici, il Presidente ha fatto sue le prospettive della politica identitaria: a essere corteggiato è il voto dei neri, degli ispanici e delle donne a spese della classe media dei bianchi americani.
    «Dipenderà da ciascuno di voi far sì che i giovani, gli afro-americani, i latinos e le donne, che ci garantirono la vittoria nel 2008, lottino ancora una volta insieme», ha detto.
    Obama ha studiatamente trascurato quell'ampia fetta di elettori bianchi: i residenti delle periferie urbane, i professionisti piccolo-borghesi, gli ambientalisti, gl’iscritti al sindacato, che lo hanno votato in massa. Per le elezioni del 2010, i bianchi non gli interessano più, specialmente i bianchi maschi e cristiani.
    Nella storia recente, nessun presidente ha mai provato a mettere gruppi razziali o sessuali l’uno contro l’altro così intenzionalmente e alla luce del sole. Il Presidente non è solamente il leader ufficiale di un partito o il capo di un governo: è il capo dello Stato e incarna la volontà collettiva del popolo americano. È il Presidente di tutti gli americani, non solamente di certi segmenti della sua coalizione elettorale. La retorica di Obama è sconsiderata, alimenta il conflitto civile e l’ostilità razziale.
    Immaginatevi, per esempio, che putiferio mediatico si sarebbe scatenato se il Presidente George W. Bush nel 2006 avesse fatto appello ai “bianchi, ai sudisti, ai cristiani e ai veterani” perché votassero il Partito Repubblicano! Bush sarebbe stato scorticato vivo, e a ragione, per aver manifestato tendenze razziste e settarie.
    Obama sta frantumando l’America: sta facendo appello al primato della razza e del sesso al fine di portare avanti la sua rivoluzione nazionale e socialista e sta cavalcando il tribalismo revanscista, una politica che, calcando la mano sulle lamentele e sul vittimismo razziale, non può che minare la nostra comune identità nazionale. Proprio come il suo pastore di un tempo, il reverendo Jeremiah Wright, Obama è il mastino della razza, un mastino virulento e anti-americano.
    Invece di vedere davanti a sé solo americani, divide le persone in base alla razza e al sesso. Le attuali politiche identitarie di stampo liberal affondano le loro radici nella dottrina fascista. Il filosofo più influente del ventesimo secolo è stato Martin Heidegger e molti ritengono che Essere e tempo, il classico saggio da lui scritto nel 1927, abbia profondamente influenzato il pensiero occidentale, in particolare la sinistra accademica e il postmodernismo che essa sposa: esattamente la cultura dalla quale proviene, per sua stessa ammissione, Obama.
    Il pensatore tedesco ha sviluppato la teoria del primato della razza, del sangue e dell’identità di gruppo in un mondo secolare e relativistico. Heidegger rigettava gli eterni principi giudaico-cristiani degli assoluti morali per fare invece appello alla volontà di potenza attraverso le comunità razziali e la solidarietà tribale. Heidegger si opponeva in maniera rigida alla democrazia, al capitalismo e alla crescita economica improntata al libero mercato, denunciandoli come ingiusti e oppressivi.
    Si omette volutamente di ricordare che Heidegger è stato anche un nazionalsocialista appassionato, ammiratore di Adolf Hitler, nonché membro del partito nazionalsocialista. Egli credeva che il fascismo — con i suoi razzismo, neopaganesimo, corporativismo economico, culto dello Stato, ambientalismo fanatico, e odio per la civiltà occidentale — rappresentasse il vero futuro: è triste dirlo, ma forse aveva ragione.
    Le élite radical-progressiste occidentali di oggi sono eredi di Heidegger. Per decenni, la sinistra americana è stata ossessionata dalla razza, dalla classe e dal sesso, mentre disprezzava la tradizione nazionale e la cultura comune degli americani. Il sogno dei Padri Fondatori di una repubblica basata sul governo limitato, su un indomabile individualismo, sulla Costituzione e sulla nozione di un “eccezione americana”, così anche le radici della nostra civiltà cristiana e anglofona basata su un’identità nazionale ben definita: tutti questi ideali devono essere soppressi in nome del progressismo.
    Contrariamente a quanto comunemente si pensa, la presidenza di Obama non sta semplicemente dando vita a una democrazia di tipo europeo: è più insidiosa e pericolosa. È il tentativo di fondare un regime allo stesso tempo liberal e fascista, dove Heidegger “incontra” [la mentalità espressa dalla nota attrice progressista] Jane Fonda.
    Ciò che ne risulta è simile a quanto caratterizza altri Stati “fascisti”[1]media ipertrofici, forte controllo dello Stato su tutti gli aspetti della vita nazionale, un settore pubblico dilatato, la sclerosi economica, una economia corporativistica[2], disoccupazione permanentemente alta, tasse devastanti, ostilità nei confronti degli ebrei (nella fattispecie Israele), una crescente intolleranza nei confronti del dissenso, la demonizzazione della critica e un culto irrazionale della personalità del Presidente.
    La caratteristica che maggiormente contraddistingue questo modello, comunque, è l’incitamento al conflitto razziale. Il fascismo prospera quando può fomentare divisioni etniche e odio, prendendo di mira nemici razziali interni al fine di galvanizzare i sostenitori dinanzi ai loro leader.
Ed è quello che Obama sta facendo oggi: insieme ai suoi alleati democratici sta deliberatamente soffiando sul fuoco delle tensioni razziali scatenatesi intorno alla legge sull’immigrazione dell’Arizona.
    Lo statuto dell’Arizona prevede solo maggiori poteri alla polizia locale al fine di far rispettare le leggi federali sull’immigrazione esistenti.
    Travolti dai cartelli della droga messicani, da un’imponente ondata di criminalità e dai molti immigrati clandestini, le autorità dell’Arizona hanno preso misure atte a difendere i confini, vista l’inerzia del governo federale. La legge-quadro restrittiva sull’immigrazione è una semplice espressione di patriottismo del senso comune e del diritto di autodifesa.

    Obama, in ogni caso, l’ha liquidata come "fuorviante". I media liberal riferendosi a quella legge, parlano di hitlerismo, di una forma di apartheid e di supremazia bianca, probabilmente a causa del suo modo di descrivere in termini razziali gli ispanici.
    Il reverendo Al Sharpton ha organizzato un boicottaggio economico dello Stato. Attaccando la legge sull’immigrazione dell’Arizona si vorrebbe far credere agli ispanici che i bianchi dell’Arizona vogliono imporre un sistema di caste a base razziale. Si gioca così consapevolmente a contrapporre questo a quel gruppo razzialo solo perché in novembre il voto delle minoranze possa ancor più massicciamente riversarsi su Obama.
    Ne consegue la graduale balcanizzazione e frantumazione dell’America. I media di maggiore diffusione si rifiutano di riconoscere una realtà evidente: nelle proteste contro la legge dell’Arizona è esplosa la violenza razziale: in Arizona gang di manifestanti ispanici hanno gettato pietre e bottiglie contro la polizia, sputando su di loro e chiamandoli “porci”. Questo fine settimana sono previste manifestazioni di massa nel Paese perché venga concessa l’amnistia ai clandestini. Gli organizzatori delle manifestazioni useranno la legge dell’Arizona come vessillo per incanalare la rabbia e l’odio etnici.
    Obama sta alimentando una polarizzazione razziale, politica e ideologica ancora più forte. Dai tempi della guerra civile gli americani non sono mai stati così divisi. Obama sta gettando le fondamenta di una possibile guerra fra razze. Benvenuti nell’America “fascista” di Obama...




[1] Kuhner usa il termine come sinonimo di totalitarismo, anche se il dibattito sul fascismo propende a farne piuttosto uno Stato autoritario con derive totalitarie; la miscela “liberalism” + fascismo sembra meglio illustrato dal concetto di "democrazia totalitaria" introdotto dal politologo americano Jacob Leib Talmon (1916-1980).

[2] Come ha più volte scritto, con questa espressione Kuhner non intende le corporazioni di arti e mestieri della vecchia Europa, bensì la democrazia controllata dai gruppi di pressione, in particolare dalle grandi corporation  industriali.


[L'articolo è apparso su The Washington Times il 30-4-2010]






martedì 20 aprile 2010

OBAMA S'INCHINA
AL MONDO



Il Presidente Obama ha di nuovo disonorato gli Stati Uniti. Durante il vertice nucleare di questa settimana a Washington, si è inchinato mentre salutava il presidente cinese Hu Jintao.
    Il gesto non è solo scioccante, ma rivelatore. Obama si è trovato esposto a forti critiche in passato per essersi inchinato ad altri leader, quali il re dell’Arabia Saudita e l’imperatore del Giappone. Ma mai prima iI capo supremo dell’America si è prostrato a un tiranno straniero su suolo statunitense.
    Inchinandosi, Obama ha degradato e sminuito il ruolo della presidenza; come capo supremo della nazione, quando s’incontra con altri capi di Stato, egli rappresenta ogni americano. E si presume ch'egli incarni anhe la dignità dell’Oval Office della Casa Bianca, in cui si riflette il nostro patrimonio collettivo di repubblica costituzionale che si autogoverna.
    Le repubbliche non riconoscono la supremazia dei signori imperiali. Questo è il principio che ha originato la Rivoluzione del 1776: gli americani non fanno salamelecchi a re o dittatori: la nazione è stata forgiata in opposizione al servilismo feudale.
    Forse Obama non ha appreso questa verità elementare durante la sua infanzia in Indonesia o nei suoi anni d’immersione nella teoria marxista post-colonialista alle superiori. Ma sta imparando ora che gli americani disprezzano i leccapiedi, specialmente se si tratta del loro presidente.
    Tutte le volte che Obama s’inchina, i sondaggi registrano una caduta e il suo prestigio declina. Eppure rifiuta di smettere, anzi accusa un bisogno compulsivo, quasi patologico di farlo. Come mai?
    I suoi atti riflettono un anti-americanismo fondamentale e ribadito, che esprime biasimo e odio profondi per il suo Paese. Obama s’inchina perché questo simbolizza il bisogno dell’America di “umiliarsi” sulla scena del mondo.
    Obama è il solo presidente in carica nella storia degli Stati Uniti il quale pubblicamente e ripetutamente si sia scusato per i “peccati” e per gli “errori” della sua nazione. In Europa ha lamentato l’“arroganza” americana; nel medio Oriente ha condannato l’“imperialismo” e l'“ingiustizia” che gli americani hanno espresso in passato contro i musulmani; in Cina ha salutato l’ascesa del Dragone Rosso a partner economico degli Stati Uniti.
    In breve, Obama s’inchina al mondo, cercando d’instaurare un ordine multipolare post-americano in cui Washington sia solo una potenza fra le altre. È un uomo di sinistra radicale, che si augura la fine del ruolo degli Stati Uniti come superpotenza globale. Come alla maggior parte dei progressisti multiculturalisti, la stessa nozione di “eccezione americana” gli ripugna.
    La presidenza Obama si può ridurre in essenza a una cosa sola: Obama sta gestendo il declino dell’America, la lenta ma inarrestabile erosione della sua posizione economica, militare e culturale un tempo dominante.
    La sua visione mondiale è totalmente distaccata dalla realtà. Di più Obama sta spingendo avventatamente e pericolosamente il mondo verso un’altra conflagrazione internazionale.
    L’America non è stata la causa delle cause della instabilità e dell’ingiustizia globali: l’America è stata il difensore dell’ordine e della libertà. Di fatto, nessun’altra nazione della storia, nessuno, ha fatto di più degli Stati Uniti per far crescere la libertà.
    L’America ha guidato la lotta per liberare l’Europa dall’aggressione nazionalsocialista e dalla dominazione sovietica. L’America ha rovesciato le dittature fasciste in Afghanistan e in Iraq, liberando più di cinquanta milioni di musulmani da un governo totalitario. L’America ha bombardato i ribelli fondamentalisti serbi, ponendo fine alla loro campagna di genocidio contro i musulmani della Bosnia e del Kosovo. L’America protegge le democrazie asiatiche dall’espansionismo militaristico della Cina.
    Obama si dovrebbe vergognare di scusarsi a nome dell’America: è come se Madre Teresa si scusasse di non prendersi abbastanza cura dei poveri. È questa una forma di auto-negazione che confina con il masochismo.
    I sinistrorsi multiculturalisti che circondano Obama sottolineano invece che tutto il suo inchinarsi e scusarsi è in realtà solo una efficace e lungimirante arte politica: l’ultima e più recente proiezione della diplomazia della “potenza morbida”. I suoi gesti di buona volontà verso le altre culture presumibilmente aiutano a costruire una larga coalizione multinazionale che affronti le grandi minacce del nostro tempo, specialmente la proliferazione nucleare.
    Ma si sta verificando l’opposto: invece di impedire agli Stati più pericolosi del mondo di acquisire ordigni nucleari, la politica di Obama sta garantendo l'estensione del nucleare ai regimi-canaglia.
    Questo è il vero senso — e la vera tragedia — del vertice di Washington sulla sicurezza nucleare. La Casa Bianca pretende che l’accordo con l’Ucraina per smantellare le sue scorte di uranio altamente arricchito sia stato un grande passo avanti strategico, mentre è stata solo una cinica montatura pubblicitaria. Le scorte di Kiev non ponevano alcuna minaccia alla sicurezza internazionale, a differenza del programma nucleare di Teheran.
    Funzionari dell’intelligence statunitense ora ammettono che l’Iran entro un anno avrà la bomba atomica. Funzionari israeliani credono invece che i mullah vi siano ancor più vicini. I "chierici apocalittici" di Teheran hanno basato la loro rivoluzione islamica sul progetto di instaurare un califfato mondiale sulle ceneri ancora calde di Israele e, da ultimo, su quelle dell’America. Una volta che l’Iran avrà acquisito la bomba, un conflitto nucleare con lo Stato ebraico è non solo probabile, ma inevitabile. Gli Stati Uniti — e altre potenze — saranno allora attirate nella lotta, ricreando così i bagni di sangue europei del ventesimo secolo.
    Obama vuole isolare l’Iran. La sua strategia è di convincere la Russia e la Cina a unirsi nell’imporre sanzioni internazionali inadeguate alla vacillante teocrazia di Teheran.
    La diplomazia "dell'ottimismo" di Obama è segno di un multiculturalismo provinciale e poco raffinato. Mosca e Pechino sono Stati autoritari anti-americani e anti-occidentali. Per loro la Guerra Fredda non è mai finita. Il loro scopo è minare l’iperpotenza americana supportando un impero persiano in grado di belligerare, il quale che si ponga come baluardo contro l’Occidente in Medio Oriente. Non hanno alcuna intenzione di frenare il programma nucleare iraniano. Di fatto, la Russia e la Cina hanno sostenuto attivamente Teheran con tecnologia e missili nucleari. Solo un narcisista completamente assorbito da se stesso può credere che Obama possegga il carisma — e la scaltrezza — necessario per persuadere questi due regimi-gangster a cooperare sull’Iran.
    Il presidente può inchinarsi quanto vuole: il leader cinese non è rimasto impressionato. Pechino ha rifiutato di capitolare di fronte alle richieste di Obama di più severe sanzioni agl’iraniani.
    «Pressioni e sanzioni non possono in sostanza risolvere il problema», si legge in una dichiarazione ufficiale del governo cinese.
    Quanto sopra, tradotto in altri termini, equivale a dire: piantiamola: nessuno rispetta un leccapiedi che striscia. Obama, smettila d'inchinarti e tieni invece la testa ben alta sulla scena globale come si addice alla più grande nazione del mondo.

[The Washington Times, 16-4-2010]
L'“ETA' OSCURA” DI OBAMA







   Il presidente Obama ha distrutto l’ultima superpotenza al mondo. L’America non è più il poliziotto globale. I nemici hanno smesso di tremare di fronte alla nostra potenza militare. I nostri avversari hanno smesso di trattarci con rispetto. Washington non ha più la volontà — o lo stomaco — di mantenere la sua egemonia.
    Questo è il vero significato del drammatico mutamento in tema di politica di sicurezza nucleare dell’Amministrazione. Il Nuclear Posture Review (NPR) annunciato questa settimana rappresenta uno spartiacque geopolitico: è la fine del momento americano, il punto in cui gli Stati Uniti rinunciano volontariamente alla loro leadership sulla scena internazionale.
    L’NPR stabilisce che Washington non userà mai le sue armi nucleari contro quegli Stati che ne sono privi che firmeranno il Trattato di non Proliferazione Nucleare (NPT). E questo anche se una di quelle nazioni attaccasse l’America con armi chimiche o biologiche. C’è un “invito a farsi largo” fatto all’Iran o alla Corea del Nord, entrambe firmatarie dell’NPT. Ovvero, se qualche gruppo terroristico legato a un Paese mediorientale ammazzasse milioni di americani facendo esplodere uno dei nostri impianti nucleari oppure ricorrendo alle armi batteriologiche come l’antrace, un attacco nucleare di ritorsione sarebbe escluso.
    Questo atto non fa che incoraggiare gli avversari dell’America che adesso sanno che Obama non ricorrerà in nessun caso all’arma finale — la bomba —, indipendentemente da quanto nefando possa essere il loro crimine. Come se non bastasse, l’NPR stabilisce che gli Stati Uniti non rimoderneranno i propri sistemi d’arma nucleari; piuttosto, Washington farà affidamento sulle vecchie testate e infrastrutture nucleari, regalando un vantaggio determinante alla Cina e alla Russia nel’escogitare tecnologie innovative per le armi nucleari.
    Obama pensa che l’NPR rappresenti un passo decisivo per il raggiungimento del suo obiettivo finale: un mondo libero da ordigni nucleari. E così, sta riducendo drasticamente l’arsenale americano e restringendo le condizioni alle quali un’arma nucleare può essere utilizzata.
    Il presidente è un fantasticatore di sinistra e, in quanto tale, vede nella bomba atomica la minaccia più grave che esista alla sicurezza internazionale. Ma si sbaglia: niente è stato più efficace per mantenere la pace nel mondo quanto la bomba atomica. Il deterrente nucleare ha evitato che gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica venissero direttamente alle mani durante la Guerra Fredda. Per secoli, abbiamo visto grandi eserciti azzannarsi reciprocamente alla gola: le rivalità fra le grandi potenze si traducevano in bagni di sangue sui campi di battaglia. L’esistenza della bomba ha reso tutto questo obsoleto. Il vasto arsenale nucleare americano assicura che non entreremo mai in un conflitto militare di grandi proporzioni contro giganti come la Cina Rossa o la Russia imperiale.
    L’NPR significa anche che, se fossa combattuta al giorno d’oggi, gli Stati Uniti non potrebbero più vincere la Seconda Guerra Mondiale nel Pacifico con le stesse armi di allora: le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e su Nagasaki. Contrariamente al mito progressista, l’uso della bomba non solo pose fine alla guerra, ma salvò un numero inverosimile di vite americane e giapponesi. Fu un atto di umanitarismo militare.
    Gli studiosi hanno stimato che un’invasione delle truppe statunitensi delle isole giapponesi avrebbe comportato la morte di più di 500.000 soldati americani e di milioni di civili giapponesi. È questa la ragione per cui la decisione del presidente Truman ebbe il supporto quasi unanime delle truppe e dell’opinione pubblica americane.
    Eppure, l’America che sconfisse la Germania di Hitler e il Giappone di Togo era una nazione diversa. Era una superpotenza in ascesa, pronta e capace di sconfiggere i suoi nemici a qualunque costo. L’America di Obama è esattamente l’opposto: provinciale, indulgente con se stessa, esausta e in ritirata. Ci spaventa persino il pensiero di usare armi atomiche. Questo non è un modo di governare illuminato: è codardia morale.
    Negli anni in cui George W. Bush era al governo, la sinistra progressista lo additava come un cowboy “unilateralista”, disposto ad andare da solo, anche a dispetto della forte opposizione dei benpensanti di Germania e di Francia. Era vero l’opposto: in Afghanistan e in Iraq, Bush ha dato vita a larghe coalizioni.
    Il vero “unilateralista” è Obama che sta unilateralmente disarmando l’America. Durante il suo turno di presidenza, gli Stati Uniti, in un patto con la Russia, hanno accettato di ridurre il proprio arsenale nucleare. Obama sta rinunciando alla possibilità di sviluppare il nucleare del futuro. E ha detto ai nostri nemici — senza mezzi termini — che gli Stati Uniti non reagiranno mai facendo ricorso alle nostre armi più potenti, indipendentemente da quanti americani saranno massacrati.
    Obama sta combinando un disarmo rischioso con un pacifismo avventato. Sta mettendo al bando l’uso di termini come “islam”, “jihad” e “estremismo islamico” dai documenti governativi sulla sicurezza nazionale che hanno a che fare con la strategia degli Stati Uniti nella guerra al terrorismo. La ragione invocata è che queste parole offenderebbero molti fedeli musulmani.
    L'agire di Obama dimostra il suo profondo allontanamento dalla realtà e l'incapacità di ammettere che l’America sta combattendo una battaglia all’ultimo sangue con l’islam radicale. Censurare i termini non fermerà i jihadisti nel loro intento di instaurare il califfato mondiale. Servirà solo a disorientare e a demoralizzare l’opinione pubblica in patria. Incapace o non desideroso d’individuare il nostro nemico mortale, Obama di fatto abbandonato la guerra al terrorismo islamico.
    Obama ha trasformato l’America in una nazione che non pensa più seriamente alle sue responsabilità internazionali. Ha fatto del nostro Paese una barzelletta agli occhi del mondo, specialmente a quelli dei suoi nemici.
    I “mullah apocalittici” dell’Iran l’hanno colto. Il presidente Mahmoud Ahmadinejad ha pubblicamente sbeffeggiato Obama, definendolo un dilettante. L’Iran è a un passo dal procurarsi la bomba nucleare. Come Adolf Hitler negli anni 1930, Ahmadinejad avverte a ragione che il più forte degli avversari in Occidente ha perso la volontà di affrontare a viso aperto i dittatori fascisti intenzionati a espandersi militarmente. La politica di pacificazione di Obama e le minacce di sanzioni prive di reale valore suscitano solo disprezzo dinanzi all’"uomo forte allo stesso tempo persiano e nazista.
    «Signor Obama, in politica lei è un principiante. Aspetti di farsi un po’ le ossa e un po’ di esperienza», ha detto Ahmadinejad davanti a una folla di sostenitori.
    Obama è un sognatore. Ha il complesso del messia, crede cioè che la sua presidenza segni una sorta di cambiamento epocale, consistente nell’instaurare un progressismo socialista e di creare un mondo libero dal nucleare. Le delusioni che patisce vanno bene per la corporazione della stampa liberal, ma agli occhi del mondo reale — il mondo del militarismo cinese, del gangsterismo russo, dell’avventurismo iraniano e dell’imperialismo islamico — non è altro che il guardiano di una iperpotenza in declino.
    Il sogno di Obama è in realtà un incubo. La pax americana ha mantenuto l’ordine nel mondo a partire dal 1945: adesso sta crollando, minato da una crisi di fiducia. I barbari sono alle porte. Una nuova "Età Oscura" sta quasi per sommergerci. La superpotenza americana non è più tale.

[The Washington Times, 9-4-2010; trad. red.]

mercoledì 7 aprile 2010

Cristianofobia


Il cristianesimo sta morendo. Se una volta rappresentava il bastione della civiltà occidentale, ora è un pietoso residuato della sua passata grandezza in forte ripiegamento in tutto l’Occidente.
    Lo scandalo degli abusi sessuali sta devastando la Chiesa cattolica, infangando lo stesso Papa Benedetto XVI. La Chiesa anglicana è stata svuotata e ha perso adepti perché sta cedendo ai venti liberal che soffiano in direzione dell’ordinazione femminile e dei diritti degli omosessuali. Molte denominazioni protestanti stanno abbandonando la fede e il loro zelo missionario, spostandosi verso l’ambientalismo chic e un socialismo annacquato, altrettanti sostituti a buon mercato del Vangelo tradizionale. L’Europa, antica roccaforte del cristianesimo, si è trasformata in una civiltà secolare neo-pagana: per gli europei Dio è morto ed è stato sostituito dall’uomo materialista.
    La marea secolaristica ha colpito e sommerso anche l’America. Fin dagli anni 1960, gli Stati Uniti sono stati vittima della rivoluzione sessuale che esalta l’edonismo e la liberazione individuale. La pornografia, l’aborto, l’omosessualismo, la promiscuità, l’epidemia di Aids, il crescente numero di nascite fuori del matrimonio, le vertiginose percentuali di divorzi e di rotture del patto familiare sono i frutti avvelenati della “Playboy philosophy”: la morale di Mtv è “in”, mentre Gesù è “out”.
    La guerra scatenata dai liberal contro il cristianesimo ha tuttavia raggiunto un nuovo e più pericoloso livello, un livello che sconfina nel totalitarismo morbido. Di recente, la città di Davenport, in Iowa, ha rimosso il Venerdì Santo dal calendario municipale. La Commissione per i Diritti Civili di Davenport ha cercato infatti di cambiare il nome della festa in uno meno “divisivo” e più ecumenico. Quindi ha mandato un promemoria agl’impiegati municipali stabilendo che il Venerdì Santo sarebbe stato ufficialmente celebrato come “Festa della primavera”. L’amministrazione della cittadina ha sottolineato che celebrare il Venerdì Santo avrebbe violato il principio di separazione fra Chiesa e Stato.
    «Abbiamo solo formulato una raccomandazione affinché il nome fosse cambiato in un altro diverso da Venerdì Santo. La nostra Costituzione fa appello alla separazione di Chiesa e Stato e Davenport si propone come città aperta a tutte le diversità: dati tutti i diversi tipi di culture religiose ed etniche che vi sono presenti, abbiamo consigliato di cambiare», ha detto Tim Hart, presidente della commissione.
    Ma, a seguito al moto d’indignazione sollevatosi fra i cristiani, il consiglio ha poi deciso di risuscitare il nome di Venerdì Santo e i secolaristi multiculturalisti di Davenport sono stati sconfitti, almeno per ora.
    Questa controversia è peraltro un segnale minaccioso: la sinistra è determinata a estirpare le festività e i simboli cristiani dalla nostra società. I liberal sono intenzionati a sopprimere i valori tradizionali e a spingere i cristiani sottoterra. La sinistra americana sta ricalcando le orme vergognose — e ben più sanguinose — dei regimi marxisti. Invece di sradicare la fede religiosa per mezzo della canna del fucile, i sinistrorsi usano i diktat della burocrazia e la propaganda di massa.
    Il risultato è il medesimo: il cristianesimo gradualmente viene espunto dallo spazio pubblico. Le celebrazioni natalizie sono diventate offensive: dire “buon Natale” è oggi considerato politicamente scorretto: il saluto appropriato è “buone feste”. I dieci comandamenti non possono essere più esposti nelle sale pubbliche o nelle aule scolastiche. La preghiera è stata bandita dalla scuola pubblica. I cristiani sono regolarmente derisi nei film e in Tv. I dollari dei contribuenti sono usati per finanziare “arti” che raffigurano Cristo in forme diffamatorie. Hollywood produce film — come Angeli e demoni — che ritraggono la Chiesa cattolica come una istituzione repressiva, sinistra e primitiva.
    L’intolleranza anticristiana è l’ultima moda dell’odio. È facile per i cristofobi di Davenport prendersela con il Venerdì Santo: che cosa può accadere nel peggiore dei casi? Telefonate ed e-mail di persone arrabbiate? assemblee presso il municipio? forse qualche protesta pubblica? Ma, alla fine, i membri progressisti della commissione sono sicuri che non pagheranno un prezzo alto, anzi saranno celebrati dalle élite liberal per i loro “ideali illuminati”.
    All’islam però non si applicano i medesimi standard di comportamento. Per paura di offendere i musulmani ed eventualmente di scatenare una fatwa contro di loro i multiculturalisti di Davenport non oseranno mai, per dire, rimuovere il Ramadan dal calendario e ribattezzarlo “mese del digiuno”. L’istinto di conservazione — e la vigliaccheria — sconsigliano loro di non attaccare certe religioni.
    I cristiani, invece, sono un bersaglio facile. Non credono nel jihad o nel terrorismo suicida. Al contrario degl’islamisti radicali, essi sposano lo Stato di diritto e i diritti umani. Accettano la persecuzione, anche quella sanzionata dallo Stato, come parte del loro bagaglio religioso. I liberal sono consapevoli che il cristianesimo è una vera “religione di pace”: ecco perché non temono di sporcarla sistematicamente.
    I padri fondatori sottolineavano che la nostra Repubblica costituzionale dipende da una società vigorosamente religiosa. «La nostra Costituzione è stata fatta solo per un popolo morale e religioso», ha detto John Adams, ed «è del tutto inadatta a governare qualsiasi altra cosa».
    Ma i padri fondatori non erano dei secolaristi. Al contrario, erano dei devoti cristiani (eccetto alcuni deisti illuminati come Thomas Jefferson), che temevano l’istituzionalizzazione di una chiesa, specialmente della Chiesa d’Inghilterra, che perseguitava i dissidenti. L’avrebbero considerata una cosa stravagante e disgustosa se fossero stati testimoni di come il concetto di separazione di Chiesa e Stato si sia tradotto ai nostri giorni in una forma di secolarismo radicale e di pregiudizio anticristiano.
    La nostra eredità giudeo-cristiana è il pilastro del nostro governo costituzionale per una semplice ragione: riconosce la natura trascendente dell’uomo. Le nostre libertà fondamentali derivano da Dio onnipotente e non dallo Stato. Ecco perché i diritti individuali — alla vita, alla libertà e alla proprietà — sono altrettanti antemurali essenziali contro il potere dello Stato: quello che Dio ha dato, nessun uomo o regime può toglierlo. Una volta che l’America perdesse la sua identità cristiana, perderebbe inevitabilmente anche le sue libertà.
    La cristianofobia è la base del “liberalismo” moderno. I sinistrorsi progressisti sono intenzionati a distruggere l’America tradizionale e le sue istituzioni delle origini: la Costituzione, il capitalismo, la sovranità nazionale e la famiglia. Ecco perché hanno dichiarato guerra al cristianesimo. Se i cristiani non si svegliano dalla loro apatia e non prendono posto su una barricata ideale, saranno di nuovo ricacciati nelle catacombe. E la loro sconfitta segnerà anche la fine della nostra grande Repubblica.
    Dobbiamo fieramente opporci contro chiunque tenti di degradare la nostra eredità cristiana. Dobbiamo riconoscere in lui l’ultima forma di fanatismo e di odio che si possa identificare: la cristianofobia. Abbiamo il diritto di abbracciare Cristo non meno di quanto loro abbiano il diritto di abbracciare uno stile di vita perverso.

[L’articolo è stato pubblicato su The Washington Times del 2 aprile 2010]

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