Un presidente monomandato
Il Presidente Obama ha perso qualcosa di più che non una semplice elezione di medio termine: ha perso la sua legittimazione morale e politica. Martedì scorso [3 novembre 2010] gli elettori hanno del tutto ripudiato la politica socialista di Obama. I democratici hanno perso la Camera dei Rappresentanti sotto una storica valanga di voti contrari, e i repubblicani del GOP hanno conquistato almeno 60 seggi. Al Senato, la maggioranza democratica è stata considerevolmente ridimensionata e il programma di governo dei liberal è morto.
Obama ha male interpretato il mandato elettorale ricevuto nel 2008, impegnandosi nel tentativo di creare uno Stato di diritto di stile europeo. Invece di risanare l’economia, ha scelto la strada della glorificazione personale e dell’arroganza, conquistandosi così la fama del presidente più radicale della storia degli Stati Uniti.
La presidenza Obama è uno spartiacque in quanto, da rivoluzionario, egli ha invocato apertamente un cambiamento e una trasformazione del Paese. E i libri di storia mostreranno che, durante i primi anni della sua amministrazione, ci è riuscito, almeno temporaneamente.
Il suo programma di stimolo economico da 814 miliardi di dollari è stato un esperimento di neo-keynesianismo radicale. Il governo federale ha sostanzialmente nazionalizzato il settore dell’automobile, le imprese assicurative, il sistema bancario e i prestiti d’onore agli studenti. La riforma per il controllo della finanza, blindata perché “troppo grossa per fallire”, ha reso i “salvataggi” statali una struttura permanente dell’economia. La Environmental Protection Agency ha stabilito che il carbonio è un “inquinante” e ha spianato così la via a una massiccia legislazione ambientalista, che pesa sull’industria manifatturiera, raggiungendo l’obiettivo di partenza del “cap-and-trade”, cioè ridurre le emissioni di carbonio e spingere in alto i costi del suo utilizzo, ma surrettiziamente.
Inoltre, la spesa pubblica ammonta al 25% del nostro PIL. Il disavanzo di migliaia di miliardi di dollari prodotto da Obama sta seppellendo l’America sotto una marea d’inchiostro rosso. Il debito nazionale si sta avvicinando al 100% del PIL, cioè a un livello dal quale nessun Paese può riprendersi: siamo sulla soglia della bancarotta.
In breve, Obama ha lasciato impresso il suo marchio progressista sulla società. Molti liberal guarderanno alla prima parte del suo mandato come a una sorta di età dell’oro, come al momento culminante del liberalismo radicale della Great Society di Johnson e del New Deal di Roosevelt. In effetti, in questi anni il partito democratico è stato preso in ostaggio dai radicali e dai fanatici ideologici post-sessantottini.
Comunque, nonostante l’umiliante sconfitta, i leader dei democratici non riescono — né lo vogliono — ad ammettere che devono cambiare rotta. Nella conferenza-stampa di mercoledì scorso, Obama ha insistito caparbiamente sostenendo che le sue più importanti decisioni sono state “difficili”, ma “giuste”. La versione della Casa Bianca è che gli elettori sono stati delusi dall’economia in sofferenza e dalla lentezza della ripresa, il che è in certa misura vero.
Ma quello che gli elettori capiscono e che Obama non capisce è che è stata la sua politica a peggiorare di molto le cose. La spesa per gli stimoli all’economia non solo non è riuscita a tenere la disoccupazione al di sotto dell’8%, ma è stata anche un massiccio sperpero, un enorme dispendio di dollari dei contribuenti, ipotecando il futuro dei nostri figli e producendo deficit megagalattici. Il pesante portato dell’Obamacare, gli enormi aumenti di tasse e l’inasprimento del controllo sul settore finanziario hanno messo a rischio il business e stornato il capitale d’investimento. Il settore privato, motore della crescita e dell’occupazione, è stato soffocato dal liberalismo statalista. Il risultato è che la disoccupazione è aumentata, mentre si profila lo spettro di una forte inflazione e l’inizio di una fase di stagnazione economica.
La nazione sta perdendo speranza: Obama ha ereditato una recessione e l’ha trasformata in depressione, dimostrando ancora una volta che il liberalismo radicale è un disastro.
Ma Obama non virerà verso il centro, come fece Bill Clinton agli esordi della rivoluzione repubblicana del 1994. Il comandante in capo è un ideologo ed è determinato a consolidare quello che ha realizzato in campo legislativo. Ma si scaverà il terreno sotto i piedi, se respingerà i tentativi del GOP di ridimensionare il suo Stato progressista e controllore. Insieme al leader della maggioranza senatoriale Harry Reid, Obama difenderà la sua eredità a tutti i costi. Non permetterà che l’Obamacare venga respinto, e neppure che sia in gran parte modificato. La spesa non sarà tagliata. Il disavanzo galoppante non sarà ridotto. La nazione dei “salvataggi” dello Stato continuerà a esistere.
Ecco perché Obama è destinato a essere un presidente “one-term”, un presidente, cioè, "monomandato". E lo sa bene, benché paia non curarsene. Come ebbe modo di dire a un intervistatore nei primi tempi del suo mandato, Obama preferisce essere un “grande presidente monomandato”, piuttosto che un “mediocre” presidente “da doppio mandato”. E “grande”, per Obama, vuol dire: “che impone il socialismo utopistico”.
La grande verità del liberalismo radicale — cosa che Obama, Reid e Nancy Pelosi afferrano tutti fin troppo bene — è che la politica può influenzare e modellare la cultura. E il liberalismo radicale favorisce la cultura della dipendenza e del vittimismo, secondo cui il potere dello Stato è la risorsa decisiva per la realizzazione dell’uomo e che, cioè, in essenza, sostituisce la fede nello Stato a quella in Dio.
La grande verità del conservatorismo, invece, è che la cultura è più importante della politica, anche se, nonostante questa consapevolezza, i conservatori si sono rivelati decisamente deboli nel combattere lo statalismo. I repubblicani hanno promesso che avrebbero respinto ogni significativa estensione del Welfare State, ma non ci sono riusciti. Il New Deal è stato mantenuto e la Great Society, sebbene erosa ai margini, rimane intatta.
La domanda è: possono i rinati repubblicani fare finalmente a Obama quello che non sono stati capaci di fare a Franklin Roosevelt e a Lyndon Johnson?
Obama scommette di no, e baserà la sua restante presidenza su questa scommessa.
Ne consegue che gli elettori probabilmente dovranno finire nel 2012 il compito che hanno appena intrapreso: porre fine a questo storico assalto alle istituzioni americane.
[L'articolo è apparso su The Washington Times del 5 novembre 2010]
venerdì 5 novembre 2010
giovedì 4 novembre 2010
L’impero di Soros
Il miliardario megalomane minaccia
i valori americani
Riecco George Soros. Il noto miliardario sinistrorso ha scritto questa settimana una nota apparsa nella sezione degli editoriali del Wall Street Journal in cui chiede la legalizzazione della marijuana. Soros sostiene “Proposizione 19”, il referendum californiano che si terrà [si è tenuto, con esito negativo per i proponenti (ndr)] il 3 novembre, che vorrebbe legalizzare il possesso di modiche quantità di marijuana e consentire la sua coltivazione fra le mura domestiche.
“Proposizione 19” è solo un importante passo verso la meta ultima di Soros: la legalizzazione di quasi tutte le droghe pesanti, incluse la cocaina e l’eroina. Si tratta di una causa che Soros ha sposato e finanziato per decenni e che, se vinta, avvicinerebbe l’America al suo modello di socialdemocrazia permissiva di stampo europeo.
La diffusione delle droghe, distruggendo la vita (e il cervello) di milioni di americani, minaccia la fabbrica stessa della nostra società. E favorisce l’abuso sui bambini, la violenza domestica, il crimine, le nascite illegittime, l’AIDS e il degrado sociale: è un flagello pubblico e il suo uso non dovrebbe essere né incoraggiato, né sanzionato legalmente, bensì sradicato.
A Soros non importa nulla che la legalizzazione si traduca in una crescita delle morti per droga e in più alte percentuali di dipendenza, specialmente fra bambini e adolescenti: Soros è un esponente della "cultura della morte". Aborto, ateismo, pornografia, matrimonio omosessuale, eutanasia e suicidio assistito sono tutti punti-chiave del programma progressista di Soros.
Le élite mediatiche danno scarso risalto a Soros e alle sue nefaste attività perché ne condividono la filosofia politica. Ecco perché rifiutano di far luce sul suo comportamento clandestino, rapace e immorale. Sono suoi complici che ne coprono i loschi, manipolatori e deleteri traffici e velano le sue opinioni neo-marxiste radicali.
Soros è il “paparino”del Partito Democratico e della sinistra moderna. Il suo patrimonio netto, che ammonta a più di sette miliardi di dollari, fa di lui uno dei più ricchi e dei più influenti uomini al mondo. E quasi tutte le maggiori organizzazioni, think tank o canali mediatici liberal sono stati beneficiati dalla liberalità di Soros: il periodico The Nation, Mother Jones, Media Matters, MoveOn.org, NPR e il Center for American Progress nel complesso hanno ricevuto milioni di dollari dal finanziere. Essi fungono da gruppi di frangia e da veicoli di propaganda per promuovere il tipo di socialismo transnazionale che piace a Soros.
Soros ha versato centinaia di milioni di dollari al vecchio blocco comunista. L’ex impero dei Soviet era diventato addirittura l’impero di Soros: era lui che lavorava dietro le quinte per destabilizzare e per influenzare Stati come la Croazia, la Slovacchia, la Serbia, la Georgia, il Kosovo e l’Ucraina, in cambio delle loro risorse naturali.
Soros è un imperialista liberal che opera per instaurare un governo unico mondiale; è rabbiosamente contro il capitalismo; è in favore dell’innalzamento delle tasse, della spesa pubblica esagerata, dello statalismo del welfare, di una massiccia ridistribuzione della ricchezza ai poveri e di uno stretto controllo del sistema finanziario internazionale. Disprezza il senso nazionale e l’eredità giudeo-cristiana dell’Occidente. Il suo obiettivo è quello d’introdurre il mondo a un nuovo ordine globale basato sul materialismo scientifico e sull’ingegneria sociale progressista.
Soros è un deciso sostenitore dell’amnistia per gl’immigranti illegali e dell’abbattimento delle frontiere con il Messico e con il Canada; secondo lui, la religione, gli Stati-nazione e la famiglia sono istituti repressivi e antiquati che vanno aboliti; è così il nemico della democrazia e dell’America.
Durante la presidenza di George W. Bush, Soros chiese un “regime change” e spese quasi 25 milioni di dollari nella speranza di sconfiggere Bush nel 2004, non riuscendovi solo per un pelo.
Il miliardario sta favorendo il caos finanziario per svalutare la nostra moneta. Soros sta scommettendo contro il dollaro Usa, cercando di minarne il valore sui mercati globali: distruggete il dollaro e la potenza economica dell’America crollerà con esso. Soros vuol ripetere il suo leggendario assalto del 1992 alla sterlina britannica, con il quale quasi riuscì a far fare bancarotta alla Banca centrale e provocò una crisi economica che costrinse i contribuenti inglesi a pagarne un caro conto. Soros fece allora la figura del bandito, intascando quasi un miliardo di dollari dal suo piano di manipolazione delle valute.
Soros è altresì uno scaltro studioso di storia: come Leon Trotsky, uno dei padri della Rivoluzione bolscevica del 1917, egli crede che fomentare la crisi permanente aiuti la rivoluzione permanente: una prolungata crisi economica, infatti, decimerebbe la classe media e comporterebbe l’accettazione di un intervento statale senza precedenti: questo è quanto egli ha sperato accadesse negli scorsi anni.
Soros è un ipocrita: vuole tasse più alte sulla ricchezza e una più stretta regolamentazione delle corporation. Ma il suo fondo d’investimento è registrato nelle Antille Olandesi, il che gli consente di schivare le tasse sui redditi e sui dividendi imposte dallo Zio Sam. I suoi investimenti e il suo denaro sono custoditi in conti offshore, lontano dagli artigli dell’Internal Revenue Service o dall’occhio vigile della Securities and Exchange Commission. Nel 2002, è stato imputato in Francia per insider trading. Non solo: Soros ha interessi finanziari legati ai cartelli della droga latinoamericani. Per esempio, è stato detto che abbia una partecipazione di maggioranza nel Banco de Colombia, istituto noto come lavanderia del denaro dei signori della droga: in breve, Soros pensa che le regole a lui non si applichino.
Egli è in sostanza un megalomane amorale disconnesso dalla realtà. Si autodefinisce “il boss dei papi”, ammettendo di provare impulsi messianici. «Immagino me stesso come una sorta di dio», ha detto una volta. E ha continuato sottolineando che «in verità, mi fanno compagnia fin dall’infanzia alcune fantasie messianiche abbastanza potenti, che mi accorgo di dover controllare, per evitare che mi creino problemi». Ma Soros sostiene che ha imparato a venir a patti con esse, nel momento in cui ha abbracciato il suo destino storico mondialista. «È una sorta di malattia quando uno si considera in qualche modo figlio di dio, il creatore di tutto: ma adesso non ho più problemi, poiché ho cominciato a esserlo».
Il fatto che Soros sia la potenza alle spalle del regime di Obama rivela la bancarotta morale e intellettuale di questo e quanto sia profondo il fallimento del liberalismo. Invece che essere considerato un eroe e un benefattore, Soros dovrebbe costituire ovunque un fattore d’imbarazzo per i liberal, dal momento che egli si pone come chiaro e immediato pericolo per la repubblica e per i suoi valori fondativi.
Se i repubblicani riprenderanno il controllo del Congresso [come è accaduto], dovrebbero lanciare una inchiesta sulle attività politiche nefaste e sulle losche manovre finanziarie di Soros. Soros ha dichiarato guerra ai conservatori e ora tocca a noi dichiarare guerra contro di lui.
[L'articolo è apparso su The Washington Times del 28 ottobre 2010]
Il miliardario megalomane minaccia
i valori americani
Riecco George Soros. Il noto miliardario sinistrorso ha scritto questa settimana una nota apparsa nella sezione degli editoriali del Wall Street Journal in cui chiede la legalizzazione della marijuana. Soros sostiene “Proposizione 19”, il referendum californiano che si terrà [si è tenuto, con esito negativo per i proponenti (ndr)] il 3 novembre, che vorrebbe legalizzare il possesso di modiche quantità di marijuana e consentire la sua coltivazione fra le mura domestiche.
“Proposizione 19” è solo un importante passo verso la meta ultima di Soros: la legalizzazione di quasi tutte le droghe pesanti, incluse la cocaina e l’eroina. Si tratta di una causa che Soros ha sposato e finanziato per decenni e che, se vinta, avvicinerebbe l’America al suo modello di socialdemocrazia permissiva di stampo europeo.
La diffusione delle droghe, distruggendo la vita (e il cervello) di milioni di americani, minaccia la fabbrica stessa della nostra società. E favorisce l’abuso sui bambini, la violenza domestica, il crimine, le nascite illegittime, l’AIDS e il degrado sociale: è un flagello pubblico e il suo uso non dovrebbe essere né incoraggiato, né sanzionato legalmente, bensì sradicato.
A Soros non importa nulla che la legalizzazione si traduca in una crescita delle morti per droga e in più alte percentuali di dipendenza, specialmente fra bambini e adolescenti: Soros è un esponente della "cultura della morte". Aborto, ateismo, pornografia, matrimonio omosessuale, eutanasia e suicidio assistito sono tutti punti-chiave del programma progressista di Soros.
Le élite mediatiche danno scarso risalto a Soros e alle sue nefaste attività perché ne condividono la filosofia politica. Ecco perché rifiutano di far luce sul suo comportamento clandestino, rapace e immorale. Sono suoi complici che ne coprono i loschi, manipolatori e deleteri traffici e velano le sue opinioni neo-marxiste radicali.
Soros è il “paparino”del Partito Democratico e della sinistra moderna. Il suo patrimonio netto, che ammonta a più di sette miliardi di dollari, fa di lui uno dei più ricchi e dei più influenti uomini al mondo. E quasi tutte le maggiori organizzazioni, think tank o canali mediatici liberal sono stati beneficiati dalla liberalità di Soros: il periodico The Nation, Mother Jones, Media Matters, MoveOn.org, NPR e il Center for American Progress nel complesso hanno ricevuto milioni di dollari dal finanziere. Essi fungono da gruppi di frangia e da veicoli di propaganda per promuovere il tipo di socialismo transnazionale che piace a Soros.
Soros ha versato centinaia di milioni di dollari al vecchio blocco comunista. L’ex impero dei Soviet era diventato addirittura l’impero di Soros: era lui che lavorava dietro le quinte per destabilizzare e per influenzare Stati come la Croazia, la Slovacchia, la Serbia, la Georgia, il Kosovo e l’Ucraina, in cambio delle loro risorse naturali.
Soros è un imperialista liberal che opera per instaurare un governo unico mondiale; è rabbiosamente contro il capitalismo; è in favore dell’innalzamento delle tasse, della spesa pubblica esagerata, dello statalismo del welfare, di una massiccia ridistribuzione della ricchezza ai poveri e di uno stretto controllo del sistema finanziario internazionale. Disprezza il senso nazionale e l’eredità giudeo-cristiana dell’Occidente. Il suo obiettivo è quello d’introdurre il mondo a un nuovo ordine globale basato sul materialismo scientifico e sull’ingegneria sociale progressista.
Soros è un deciso sostenitore dell’amnistia per gl’immigranti illegali e dell’abbattimento delle frontiere con il Messico e con il Canada; secondo lui, la religione, gli Stati-nazione e la famiglia sono istituti repressivi e antiquati che vanno aboliti; è così il nemico della democrazia e dell’America.
Durante la presidenza di George W. Bush, Soros chiese un “regime change” e spese quasi 25 milioni di dollari nella speranza di sconfiggere Bush nel 2004, non riuscendovi solo per un pelo.
Il miliardario sta favorendo il caos finanziario per svalutare la nostra moneta. Soros sta scommettendo contro il dollaro Usa, cercando di minarne il valore sui mercati globali: distruggete il dollaro e la potenza economica dell’America crollerà con esso. Soros vuol ripetere il suo leggendario assalto del 1992 alla sterlina britannica, con il quale quasi riuscì a far fare bancarotta alla Banca centrale e provocò una crisi economica che costrinse i contribuenti inglesi a pagarne un caro conto. Soros fece allora la figura del bandito, intascando quasi un miliardo di dollari dal suo piano di manipolazione delle valute.
Soros è altresì uno scaltro studioso di storia: come Leon Trotsky, uno dei padri della Rivoluzione bolscevica del 1917, egli crede che fomentare la crisi permanente aiuti la rivoluzione permanente: una prolungata crisi economica, infatti, decimerebbe la classe media e comporterebbe l’accettazione di un intervento statale senza precedenti: questo è quanto egli ha sperato accadesse negli scorsi anni.
Soros è un ipocrita: vuole tasse più alte sulla ricchezza e una più stretta regolamentazione delle corporation. Ma il suo fondo d’investimento è registrato nelle Antille Olandesi, il che gli consente di schivare le tasse sui redditi e sui dividendi imposte dallo Zio Sam. I suoi investimenti e il suo denaro sono custoditi in conti offshore, lontano dagli artigli dell’Internal Revenue Service o dall’occhio vigile della Securities and Exchange Commission. Nel 2002, è stato imputato in Francia per insider trading. Non solo: Soros ha interessi finanziari legati ai cartelli della droga latinoamericani. Per esempio, è stato detto che abbia una partecipazione di maggioranza nel Banco de Colombia, istituto noto come lavanderia del denaro dei signori della droga: in breve, Soros pensa che le regole a lui non si applichino.
Egli è in sostanza un megalomane amorale disconnesso dalla realtà. Si autodefinisce “il boss dei papi”, ammettendo di provare impulsi messianici. «Immagino me stesso come una sorta di dio», ha detto una volta. E ha continuato sottolineando che «in verità, mi fanno compagnia fin dall’infanzia alcune fantasie messianiche abbastanza potenti, che mi accorgo di dover controllare, per evitare che mi creino problemi». Ma Soros sostiene che ha imparato a venir a patti con esse, nel momento in cui ha abbracciato il suo destino storico mondialista. «È una sorta di malattia quando uno si considera in qualche modo figlio di dio, il creatore di tutto: ma adesso non ho più problemi, poiché ho cominciato a esserlo».
Il fatto che Soros sia la potenza alle spalle del regime di Obama rivela la bancarotta morale e intellettuale di questo e quanto sia profondo il fallimento del liberalismo. Invece che essere considerato un eroe e un benefattore, Soros dovrebbe costituire ovunque un fattore d’imbarazzo per i liberal, dal momento che egli si pone come chiaro e immediato pericolo per la repubblica e per i suoi valori fondativi.
Se i repubblicani riprenderanno il controllo del Congresso [come è accaduto], dovrebbero lanciare una inchiesta sulle attività politiche nefaste e sulle losche manovre finanziarie di Soros. Soros ha dichiarato guerra ai conservatori e ora tocca a noi dichiarare guerra contro di lui.
[L'articolo è apparso su The Washington Times del 28 ottobre 2010]
sabato 23 ottobre 2010
Annientare i democratici
Gli elettori si preparano a vendicarsi
dello strafare di Obama
dello strafare di Obama
I democratici sono alla vigilia di una sconfitta storica. Due anni giusti or sono, il partito sembrava dar vita a una coalizione di governo del tutto maggioritaria, controllando il Congresso, governatorati-chiave e molti organi legislativi degli Stati. E con l’elezione del 2008 del presidente Obama, i democratici riuscirono a occupare anche la Casa Bianca.
Il Paese si era spostato verso il centro-sinistra. Gli elettori erano disgustati dell’aministrazione Bush, specialmente del malgoverno dei repubblicani, della dura recessione economica e del protrarsi delle guerre in Medio Oriente. Il repubblicanismo di Bush e di Cheney aveva danneggiato il marchio conservatore. I democratici ebbero così un’opportunità d’oro per instaurare sulle macerie repubblicane un duraturo regime liberale pragmatico .
Ma l’hanno sciupata. Invece di concentrarsi sulla ripresa economica, sulla creazione di posti di lavoro e sulla vittoria nella guerra contro il terrorismo, l’amministrazione Obama ha usato la sua imponente maggioranza al Congresso per espandere i poteri dello Stato. Di fatto, se Obama avesse esercitato una leadership responsabile — tagliando la spesa, accorciando il disavanzo, portando avanti politiche di crescita e operando riduzioni di tasse permanenti alla classe media — sarebbe oggi in una condizione assai diversa. L’economia sarebbe in crescita. I sondaggi a suo favore non sarebbero un fiasco totale. E il suo partito non sarebbe di fronte a un’ondata politica ostile che sembra una marea.
Obama è un ideologo radicale: preferisce il socialismo al pragmatismo e vuole rifare l’America invece che rivitalizzarla. Fin dal principio, il suo obiettivo è stato creare una socialdemocrazia basata su interessi corporativi, ovvero un conglomerato di organi pubblici di scala mai vista in America e che ricorda le dittature marxiste. Nei primi venti mesi della sua presidenza è stato ovunque e dappertutto: a ricevere il premio Nobel per la Pace (anche se non ha fatto un bel niente), è apparso a più riprese sulla copertina dei settimanali nazionali e in trasmissioni televisive, beneficiando dell’instancabile adulazione servile da parte dei media istituzionali.
Tuttavia, mentre i media lo incoronavano nuovo imperatore (di sinistra), lo scontento dei suoi sudditi, sottoposti al giogo imperiale dei democratici, cresceva. Obama si è alienato le simpatie della Middle America per un’unica e semplice ragione: la sua politica sta salassando il Paese fino all’ultima goccia e sta “spezzando le reni” alla nazione.
Obama ora è visto, a ragione, come un individuo che ha pericolosamente perso contatto con la realtà, talmente è consunto dal potere, dalla hybris e dall’arroganza da non vedere il disprezzo che gli riservano molti degli americani. Ma questi lo vedono per quello che egli è realmente: un rivoluzionario progressista post-nazionale, che cerca di insediare una nuova classe dirigente liberal: questa è l’essenza della sua presidenza.
Obama ha fatto ingoiare l’Obamacare al Congresso e alla maggioranza del popolo americano, abusando delle procedure legislative, rifiutando di sottoporre all’esame del suo grandioso programma sanitario dalle commissioni congressuali. La sua amministrazione si è impegnata in palesi operazioni di tangenti e di corruzione per far pressione sugli elettori-chiave: lo dimostrano i casi “Louisiana Purchase”, “Cornhusker Kickback”, nonché l’offerta di posti di giudice a fratelli di deputati. Ma, cosa peggiore di tutte, Obama ha mentito: ha promesso che la sanità statalizzata avrebbe abbassato i costi e non incrementato il deficit. Mentre lo smisurato “diritto alla salute” costerà ai contribuenti almeno mille miliardi di dollari nei prossimi dieci anni, se non molto di più. Imporrà il razionamento delle cure e ne abbasserà la qualità. L’Obamacare non è altro che l'ennesimo costoso piano di allargamento dei diritti che non possiamo permetterci.
Obama ha promesso che la sanità sarebbe stata un fattore della vittoria dei democratici a novembre. Ma si è rifiutato di farne oggetto di campagna elettorale. E questo perché persino lui sa che è un tema profondamente impopolare. Ha chiesto ai suoi amici democratici, molti dei quali non volevano, di sbrigarsi a votare la legge, poi li ha abbandonati a nuotare in acque infestate da squali.
Obama ha aggredito quasi tutti i settori della società: ha nazionalizzato l’industria automobilistica, il settore finanziario e il sistema di prestiti d’onore agli studenti dei college. Il suo regime ha proposto la regolamentazione dell’uso di Internet. I suoi alleati in Congresso vogliono mettere il bavaglio alle radio conservatrici facendo passare la cosiddetta “dottrina della imparzialità”. Ha nominato parecchi “zar” politici con poteri a livello di Gabinetto, aggirando la normale procedura di conferma senatoriale. Il suo Dipartimento della Giustizia sta mettendo sotto inchiesta l’Arizona per aver tentato di proteggere i suoi cittadini dai cartelli della droga messicani e dagl’immigrati clandestini criminali. Ha tagliato i fondi al programma di popolamento dello spazio della NASA, facendo venir meno la posizione di vantaggio strategico che l’America aveva nella corsa allo spazio. I soli tagli di spesa che ha effettuato sono stati la riduzione di 100 miliardi di dollari del budget del Pentagono, indebolendo così la nostra capacità militare.
Ma il suo peggior crimine, l’unico per il quale egli non può e non deve mai essere dimenticato, è aver accumulato un mastodontico deficit pubblico. La sua amministrazione ha fatto approvare a rate un disavanzo di migliaia di miliardi di dollari: ha accresciuto più lui il debito pubblico che non tutti i presidenti prima di lui, da George Washington a Ronald Reagan, messi insieme. È in via di accumulare 10mila miliardi di dollari di debito nei prossimi dieci anni, una cifra incredibile, che nessuno Stato può mai sostenere. In breve, la politica di spesa-indebitamento di Obama sta seppellendo l’America sotto una montagna di inchiostro rosso [con cui si segnano le cifre negative]. La nostra sicurezza finanziaria e nazionale di lungo termine è minacciata.
I risultati sono stati disastrosi: i piani d’incentivo da 800 miliardi di dollari non sono riusciti a ripristinare la crescita, salvo quella del big government; l’inflazione sta salendo; il disavanzo commerciale si sta allargando; il dollaro crolla; la disoccupazione rimane ferma al 10 per cento circa; i capitali d’investimento e di affari sono in fuga; i pignoramenti di abitazioni continuano; la classe media affonda: sta subentrando la disperazione, mentre il Paese è alla deriva e la gente sta perdendo speranza.
Ecco perché i democratici a novembre subiranno una disfatta. Se i numeri dei sondaggi odierni tengono, i repubblicani rivinceranno non solo alla Camera ma forse anche al Senato. E sarà un duro e umiliante ripudio del programma radicalsocialista di Obama, che ha commesso il peccato capitale della politica: ha esagerato. E adesso arriva la resa dei conti.
[L'articolo è stato pubblicato su The Washington Times il 14 ottobre 2010]
lunedì 11 ottobre 2010
Il conservatorismo
di Michael Savage
Il conduttore di talk show scrive che l’Obamanomics equivale a «impoverire i poveri»
Michael Savage[1] ha scritto un libro attuale e importante. Il fiero conduttore di talk radio, il cui programma The Savage Nation [La nazione di Savage, oppure, con un facile gioco di parole, La nazione selvatica] vanta quasi dieci milioni di ascoltatori alla settimana, ha scatenato un autentico jihad politico contro il presidente Obama.
Impoverire i poveri: fermiamo l’assalto di Obama alle nostre frontiere, alla nostra economia, alla nostra sicurezza, pubblicato da Harper Collins, è un grido di dolore conservatore, un appassionato manifesto contro il programma radicalsocialista di Obama. Secondo Savage, il presidente è un sinistroide ancora in età adolescenziale, un narcisista la cui megalomania e i cui piani grandiosi minacciano di distruggere l’America tradizionale: «Il presidente Obama è come un bimbo spaccatutto che butta per terra un orologio di valore inestimabile che gli è stato dato in mano con estrema cura», scrive. «Senza rispetto per il valore di quello che tiene nella mano, con noncuranza lo frantuma sul pavimento e poi non riesce più a rimetterne assieme i pezzi».
Savage chiama il presidente "Obama il Distruttore", perché il suo obbiettivo è quello di smantellare la sovranità e il libero mercato americani per instaurare al loro posto una socialdemocrazia multiculturale. Savage rivela che le politiche di Obama sono fondamentalmente non-americane e che Obama è il primo leader post-nazionale nella storia degli Usa.
Egli avverte altresì che, lungi dall’essere un miope scolastico marxista, il presidente sta perseguendo una sistematica e deliberata strategia volta a plasmare uno Stato-bàlia all’europea. Obama non è semplicemente un progressista ingenuo, ma piuttosto un socialista rivoluzionario che professa una sorta di "pan-leninismo". Come il fondatore della Rivoluzione bolscevica del 1917, Vladimir Lenin, Obama è un uomo dell’internazionale rossa, il cui sogno è quello di coinvolgere l’America in un grande disegno ideologico. Ecco perché ha fatto passare — contro la volontà del popolo americano — un nuovo sistema sanitario all’europea imperniato sullo Stato. Ecco perché sostiene con zelo le carbon taxes, la legislazione sul cap-and-trade, i massicci aumenti delle imposte sui redditi, la nazionalizzazione delle case automobilistiche e di gran parte del settore finanziario, gli enormi programmi di spesa e il finanziamento federale dell’aborto. Lo fa perché vuole che l’America diventi una fotocopia dell’Europa. Di fatto, Savage è convinto che il presidente sia un progressista transnazionalista, che crede fino in fondo in un governo mondiale universale basato sulle Nazioni Unite. Il capitalismo, lo Stato-nazione e l’eredità ebraico-cristiana dell’America vanno pertanto tutti gettati nella pattumiera della storia.
Savage rivela che Obama sta decimando la classe media. La sua politica di tassazione e spesa sta creando una "povertà indotta". Milioni di americani stanno perdendo il lavoro, la casa e i mezzi di sostentamento per colpa della Obamanomics. L’America sta diventando un Paese a due livelli, uno popolato dai poveri che dipendono dai sussidi statali, l’altro, la nuova classe dirigente. Obama e i democratici, insieme ai loro alleati progressisti nel mondo dei media, dei sindacati e di Hollywood, cercano solo di rafforzare il loro potere. Non sono animati né da compassione, né da altruismo, ma solo dall’ambizione e dalla cruda e sfrenata brama di controllo della società.
Il conservatorismo stile "one nation" di Savage non sta bene a molti esponenti dei media o addirittura della destra stessa. Egli è stato emarginato per anni, denunciato da molti liberal e da conservatori come un burino di destra o un bombarolo irresponsabile. Il suo vero crimine è tuttavia solo quello di essere, sebbene conservatore, un vero e proprio cane sciolto che non vuole far parte del decrepito e venale establishment del Great Old party (GOP). Savage sostiene che i repubblicani «[...] hanno violentato la signora Libertà per otto anni» durante l’amministrazione di George W. Bush: in breve, Savage non è il cagnolino del GOP.
Non vi è alcunché di educato o di cauto nella sua politica: è un guerriero culturale, che non ha paura di sfidare la dominante ortodossia secolaristica e multiculturale. È contro l’aborto, tranne nel caso in cui la vita della madre sia a rischio. Pretende la chiusura della frontiera meridionale dispiegandovi migliaia di soldati americani. Vuole deportare tutti gl’immigrati illegali condannati per crimini di violenza. Crede che l’inglese debba essere la lingua ufficiale del Paese. È convinto che l’Occidente ha ingaggiato una lotta mortale contro l’islam radicale e che debbano essere usati tutti i metodi disponibili — inclusa l’analisi del comportamento – per vincere la guerra. In poche parole, Savage è una rarità nell’odierno Nuovo Ordine Mondiale: è un coriaceo nazionalista schierato per "la lingua, le frontiere e la cultura".
Savage è disposto a dire in pubblico ciò che molti conservatori si limitano a sussurrare in privato. Ecco perché i suoi fan lo adorano e i suoi nemici lo disprezzano. È un uomo di un’altra generazione e di un altro tempo. La trasmissione The Savage nation è uno degli ultimo ridotti di libera espressione nei media, un ridotto incontaminato dal politically correct. Savage è unico fra i principali conduttori conservatori di trasmissioni radio: non è un filo-repubblicano amante delle corporation, né un libertario materialista ossessionato dal profitto e dal porno, e neppure un sostenitore del liberismo senza frontiere. Al contrario, è un conservatore tradizionalista, schierato per Dio, la Patria e la famiglia. La sua popolarità continua a volare, a dispetto delle implacabili campagne di diffamazione scatenate contro lui, perché molti americani riconoscono che questa è la visione del mondo che ha fatto grande la nostra nazione e che è essenziale per restaurare la Repubblica.
[L'articolo è apparso su The Washington Times del 7-10-2010]
lunedì 20 settembre 2010
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