DELLA CAPITALE
Il Presidente Obama è diventato una calamità nazionale: i suoi quasi diciotto mesi di presidenza mostrano chiaramente la sua incapacità a ricoprire in maniera efficace la carica di capo del potere esecutivo del Paese. In breve, è un colossale fallimento.
Si pensi a come ha affrontato la fuoriuscita di petrolio dall’impianto BP. Ha provato maldestramente ad aggiustare alla bell’e meglio la risposta del governo alla più grande catastrofe ambientale nella storia degli Stati Uniti. Non era certo lui il responsabile dell’esplosione avvenuta presso l’impianto di trivellazione Deepwater Horizon, né dei milioni di barili di petrolio grezzo zampillanti dal fondo dell’oceano che hanno devastato le sponde del Golfo del Messico e il loro prezioso ecosistema.
La sua colpa sta nel non esser stato capace di contenere e ripulire la fuoriuscita. Obama è il presidente degli Stati Uniti. Suo dovere primario è quello di proteggere la nostra sicurezza nazionale, sia dai terroristi assassini, sia dalle tonnellate di liquame nero che decimano mestieri e mezzi di sostentamento dei cittadini della Gulf Coast. Invece di dichiarare lo stato di emergenza, nel “Giorno Uno” della crisi, Obama ha tentennato e la sua intera amministrazione se ne è stata con le mani in mano.
Il Segretario alla Sicurezza Nazionale Janet Napolitano ha aspettato più di una settimana prima di chiamare la Marina e la Guardia Costiera, perché la Napolitano ha candidamente ammesso di non avere idea che la Marina era in possesso dell’equipaggiamento necessario a far fronte alla falla. Il compito di Obama dovrebbe consistere nel coordinare le varie forze che interagiscono per affrontare la crisi: ci sono invece volute settimane prima che all’ammiraglio Thad Allen della Guardia Costiera fossero finalmente dati i poteri e le responsabilità necessari e fosse individuata una catena di comando. Obama, inizialmente, aveva fatto affidamento sul fatto che la BP sarebbe riuscita a fare una cosa che invece toccava a lui, cioè bloccare la fuoriuscita.
La sua risposta è stata tardiva e patetica. Sono passate settimane prima che Obama si recasse in visita nel Golfo, quasi che non potesse perdere tempo nell’affrontare una catastrofe ecologica sulle coste americane, impegnato com’è a costruire l’utopia progressista. A un socialista visionario non può piacere il difficile compito del governare: non lo considera alla sua altezza: che ci pensino i lacché della burocrazia.
Come se non bastasse, Obama ha aumentato l’entità del danno economico nel Golfo. La sua decisione di imporre una moratoria di sei mesi sui permessi per le trivellazioni in acque profonde costerà migliaia di posti di lavoro, farà aumentare i costi dell’energia prodotta in patria e aumenterà il fabbisogno di petrolio estero, specialmente di quello proveniente da "petrolstati" antiamericani come l’Arabia Saudita, la Russia e il Venezuela. Obama non è solo un incompetente, ma uno che fa un sacco di danni.
Il governatore repubblicano della Louisiana Bobby Jindal ha giustamente osservato che il governo federale si è rifiutato di intraprendere un’azione decisa per contenere la fuoriuscita ed evitare che il liquame nero raggiungesse la costa: non si è fatto un uso adeguato dei macchinari di aspirazione più sofisticati; si è deciso troppo tardi e a casaccio di alzare quelle lunghe barriere di sabbia che erano invece di vitale importanza; si è pensato di non mobilitare tutti i mezzi a disposizione della Marina e della Guardia Costiera, né si è voluto ricorrere agli efficaci macchinari di contenimento offerti da altri Paesi, come la Norvegia e gli Stati del Golfo Persico, con i quali si era riusciti in passato ad arginare analoghe fuoriuscite di petrolio in acque alte.
Obama ha piuttosto cercato di sfruttare l’incidente petrolifero della BP per accelerare i tempi di attuazione del suo programma radical-progressista ed espandere i poteri dello Stato-controllore. Egli ha strumentalizzato a fini politici la fuoriuscita di petrolio, applicando la regola di Saul Alinsky, il teorico della nuova sinistra degli anni 1960, sfruttando cioè un incidente per accelerare la distruzione del capitalismo, ovvero: crisi permanente al servizio della rivoluzione permanente.
Ecco perché, nel discorso teletrasmesso dall’Oval Office martedì scorso, Obama ha rilanciato l’appello per un “New Deal” verde, chiedendo che l’America smetta di fare affidamento sui combustibili fossili e si converta a un’economia fondata sull’“energia pulita”. Obama vuole 160 miliardi di dollari per finanziare una politica che promuova l'“industria verde”, cioè vuole attuare massicci incentivi governativi per stimolare l’uso di energia solare ed eolica.
Spinge perché il Senato approvi leggi radicalmente innovative del tipo "cap-and-trade", nonché per istituire una tassa nazionale sull’energia e imporre alle imprese di porre un freno alle emissioni di anidride carbonica. Tutto ciò provocherà un aumento dei costi per l’energia — specialmente benzine e gas naturali — che costringerà i cittadini a ridurre drasticamente i consumi. E questo potrebbe mettere a rischio lo standard di vita americano e rappresenterebbe inoltre la maggior estensione del potere statale della storia degli Stati Uniti,perché il governo inquadrerebbe e controllerebbe direttamente l’industria. Obama mira infatti a instaurare uno Stato assistenziale "verde" basato sulla pianificazione centralizzata e sui grandi apparati burocratici.
Il presidente sta conducendo un assalto frontale contro lo Stato di diritto e i tradizionali diritti di proprietà. La BP dovrebbe pagare l’intero costo dei danni della falla e delle operazioni di ripulitura, dal momento che il guaio l’ha fatto lei. La BP è anche responsabile delle profonde conseguenze economiche per la regione: la perdita del lavoro e dei mezzi di sostentamento di coloro che vivono di pesca, lo sconquasso nell’industria del turismo e il disastro delle comunità colpite. Il colosso petrolifero è pienamente responsabile e dovrebbe pagare fino all’ultimo spicciolo.
Ma ottenere questo è compito dei tribunali: il processo giudiziario esiste proprio per questo. Obama, invece, sta procedendo in maniera illegale e inaudita: vuole costringere la BP a stanziare venti miliardi di dollari su un conto-deposito, che sarebbe amministrato da un funzionario nominato da lui e dovrebbe risarcire le vittime della fuoriuscita. La BP ha accettato di costituire questo fondo, spinta dall’enorme pressione politica: in altre parole il colosso petrolifero ha capitolato dinanzi alla prepotenza furfantesca dell’amministrazione.
Un comportamento del genere sarebbe più degno di un Vladimir Putin o di un Hugo Chavez che non di un presidente americano. Obama sta in sostanza conducendo un’operazione di razzia di beni privati di una società commerciale, perché un suo compare asservito a un’agenda politica possa elargire pagamenti, facendolo sembrare un leader in carica. La BP e i suoi azionisti devono essere sacrificati sull’altare dell’immagine delle pubbliche relazioni di Obama. Ma questa non è leadership: è totalitarismo strisciante.
Nessuna delle iniziative di Obama — il conto-deposito di venti miliardi di dollari, il divieto di trivellazione, la diffamazione di BP, il cap-and-tax sulle emissioni di gas, l’appello donchisciottesco all’uso di mulini a vento e di automobili a energia solare — farà la sola cosa necessaria e che gli era stata chiesta: turare la falla. In altre parole, Obama non è capace di risolvere il problema che ha per le mani, oppure non ha alcuna intenzione di farlo.
Nel suo discorso del martedì sera, Obama ha praticamente ammesso di non sapere con precisione che cosa deve fare per risolvere nell’immediato il disastro dovuto alla falla petrolifera. Ha invitato, comunque, gli americani ad auspicare un non meglio precisato futuro che vedrà l’inverarsi di un’utopia verde. «Anche se non possiamo esattamente a che cosa assomiglierà — ha detto —, anche se non sappiamo precisamente come ci arriveremo: sappiamo solo che ci arriveremo».
Agli americani non interessano soporifere lezioni sull’energia pulita, quando le loro coste sono devastate, la loro patria è sotto attacco,i suoi cittadini vivono una situazione disperata. Il presidente ha completamente mancato di raccogliere la sfida, perché è fuori della sua portata.
[L'articolo è stato pubblicato su The Washington Times il 17-6-2010].