"RIGHT IS RIGHT, LEFT IS WRONG"

sabato 27 febbraio 2010

UNA COTTA CONSERVATRICE

PER L'ISOLAZIONISMO?


E' il senatore Ron Paul il futuro del movimento conservatore? Sembrerebbe, purtroppo, di sì, se il meeting annuale del Cpac, la Conservative Political Action Conference, svoltosi qualche giorno fa, si rivelerà un barometro attendibile.
    Nel sondaggio del Cpac, il campione libertario, nonché candidato alle primarie presidenziali del 2008, ha vinto nettamente con il 31% dei 2400 voti. Mitt Romney, già governatore del Massachusetts, è arrivato solamente al 22%. Sarah Palin si è piazzata a un terzo posto a molta distanza dai primi due
    Paul, repubblicano del Texas, è un convinto "fiscal conservative". È un jeffersoniano anti-statalista che si batte da sempre per uno Stato limitato, per l’abbassamento delle tasse e per i diritti dei singoli Stati. Vorrebbe tagliare drasticamente la spesa pubblica e abbattere l’ipertrofico leviatano federale.
    In particolare, Paul si è rivelato il maggior critico parlamentare della Federal Reserve (Fed). È stato lui ad aver chiesto al Government Accountability Office, l’organismo federale di controllo sui conti pubblici statunitensi, di condurre su di essa un'indagine amministrativa a tutto campo. E ha ragione: Ben S. Bernanke, presidente della Federal Reserve, gestisce una banca centrale che non ha né obblighi di rendicontazione né di trasparenza. In ultima analisi, la Fed non deve rispondere che a se stessa.
    Tutto questo deve finire. Contrariamente a quanto i suoi difensori sostengono, la Fed è un enorme mostro le cui politiche hanno annientato l’economia reale — la cosiddetta “Main Street” [la strada dei piccoli commercianti] — per soccorrere Wall Street [la strada dei finanzieri]. Ha alle spalle un lungo curriculum di fallimenti che hanno ripetutamente danneggiato il nostro tradizionale benessere. È il perno istituzionale su cui si regge il capitalismo faccendiere che sta al cuore dello Stato delle grandi corporation in America.
    Per esempio, a dire del premio Nobel per l’economia Milton Friedman, furono le politiche sconsiderate della Federal Reserve a causare la Grande Depressione del 1929. Nella seconda metà degli anni 1920, la Fed aumentò notevolmente la quantità di denaro immessa in circolazione. L’afflusso massiccio di denaro “facile” fece schizzare alle stelle la Borsa al punto che le azioni potevano essere acquistate con un margine del 10%. Tutto questo creò un enorme bolla. Come tutte le bolle, anche questa, a un certo punto, si sgonfiò e gli investitori corsero a ritirare il proprio denaro dalle banche per ricostituire i minimi d’investimento. La corsa alle banche così scatenatasi portò molte di esse al collasso per mancanza di liquidità. Prima che passasse la bufera, il sistema bancario americano e i mercati finanziari erano implosi. La contrazione economica portò con sé la disoccupazione di massa e la povertà degli anni 1930.
    La bolla del “.com” [la crisi dei titoli informatici] degli anni 1990, il boom dei mutui-casa degli anni 2000, le spericolate politiche di prestito a Wall Street, sono state tutte frutto della politica di taglio del costo del denaro attuata dalla Fed. Queste bolle sono direttamente responsabili della nostra crisi economica. La prerogativa della Fed di stampare denaro e di far circolare migliaia di miliardi di dollari in surplus ci ha portato sull’orlo della rovina.
    Ron Paul è, su temi fiscali, un "falco" e in economia un realista consapevole di quanto la Fed e il progressismo del Big government possano nuocere alla Repubblica definita dalla Costituzione. Nessuna meraviglia, allora, che i conservatori più giovani e i libertari lo ammirino.
    In politica estera, tuttavia, egli si sbaglia, e i suoi errori potrebbero causare molti danni. La sua ostilità allo “Stato assistenziale-bellico” è fuorviante: puntare su una forte difesa nazionale è di cruciale importanza per la sopravvivenza dell’America, specialmente in un’epoca di terrorismo islamico globale.
    Quando Paul espone le sue opinioni sulla politica estera sembra di risentire i vecchi isolazionisti degli anni 1930 e 1940. Conservatori come Robert Taft e Charles Lindbergh si opposero al coinvolgimento degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale. Erano pronti ad abbandonare l’Europa nelle mani della Germania di Hitler. Ritenevano che l’America era al sicuro all’interno dei suo perimetro difensivo continentale, ben protetta dai due oceani. L'attacco di Pearl Harbor dimostrò, tuttavia, quanto inconsistente fosse il mito della “fortezza America”, proprio come, poi, hanno fatto gli attentati dell’11 Settembre.
    In un'epoca di armi nucleari e di fanatismo, nessuna nazione è al sicuro. Ron Paul, attingendo al frasario della New Left degli anni 1960, crede ancora che gli Stati Uniti sono diventati un’“impero” e sostiene che gli attacchi dell’11 Settembre si sono scatenati “su di noi” a causa della nostra politica imperialistica in Medio Oriente.
    Il che è falso: i jihadisti hanno dichiarato guerra all’Occidente perché vogliono restaurare il califfato islamico medioevale. Il sostegno americano dato a Israele o gli aiuti economici all’Egitto sono solamente il pretesto con cui coprono i loro intenti totalitari e rivoluzionari. Se fosse vero che è la politica americana ad alimentare il jihadismo nel mondo, perché anche Paesi come la Francia, la Germania, l’Italia, la Russia, la Spagna, il Canada, la Cina, l’Indonesia, le Filippine, la Giordania, l’Arabia Saudita e il Libano — Paesi che sono anti-israeliani, filo-palestinesi e filo-arabi — sono presi di mira dalla violenza terroristica?
    Non è stato un immaginario imperialismo americano a causare l’ascesa dell’islam radicale, ma il socializzarsi del desiderio di imporre la legge della sharia nel mondo. Sono Osama bin Laden e i suoi alleati i veri colonialisti, non l’America.
    Come il nazionalsocialismo e il comunismo sovietico, l’islamofascismo costituisce una minaccia mortale per l’Occidente. Noi oggi siamo impegnati in una lotta ideologica e militare, in un duello all’ultimo sangue. Il genere di isolazionismo di Ron Paul non fa bene né alla destra né all’America. Egli è nel giusto quando si batte in patria per lo Small government e per la solidità della moneta. Ma il suo appello non-interventista è un puro volo di fantasia. Paul è un uomo del passato e si illude di viverci tuttora.

[Articolo apparso su The Washington Times il 26 febbraio 2010]

lunedì 8 febbraio 2010

AMERICA DI OBAMA:
UN TENTATO SUICIDIO?


«Le civilità muoiono suicide, non ammazzate», ha detto il grande storico Arnold Toynbee. Sotto la presidenza Obama, l’America sta perdendo il suo ruolo di superpotenza: è in declino e sta lentamente trasformandosi in una nazione di secondo piano.
   Il crollo americano è avvenuto d'improvviso e di schianto: deficit in crescita, stagnazione economica, compromesso con l’islam radicale e con il socialismo rivoluzionario: la politica di Obama sta erodendo la supremazia dell’America sulla scena mondiale. Se una volta eravamo i maggiori creditori al mondo, ora siamo diventati la nazione più indebitata. Questa settimana, Obama ha presentato il suo budget fiscale per il 2011: 3.800 miliardi di dollari di spese federali sono una cifra mai raggiunta... e il deficit di bilancio arriverà alla cifra record di 1.600 miliardi di dollari.
   L’Amministrazione millanta la necessità di operare “scelte dure”: ma il budget di Obama accresce drasticamente la spesa a favore di progetti cari ai democratici. Obama chiede 25 miliardi di dollari di nuove spese per il progetto Medicaid, 100 miliardi per il cosiddetto “piano del lavoro”, grossi incrementi di spesa per piani di sostegno alle famiglie a basso reddito, per l’istruzione e per la ricerca medica. In totale, le proposte di Obama configurano un aumento di quasi il 30% della spesa federale rispetto al 2008.
  Il suo dissennato programma di “big government”, di “big deficits” e di “big spending” [Stato allargato, ingenti deficit e grande spesa pubblica (ndt)] stanno spingendo l’America verso la bancarotta nazionale. Fra il 2009 e il 2011 Obama avrà aggiunto altri 3.700 miliardi di dollari al debito pubblico. E accumulato più debiti in tre anni che nei 225 anni di storia patria precedente. È la strada verso il suicidio fiscale.
   Il presidente americano sta varando enormi piani di spesa pubblica e deficit incontrollati per conseguire un unico obiettivo fondamentale: un permanente e massiccio incremento delle tasse per consentire all’élite liberal dominante di esercitare un maggior controllo sul settore privato. Obama domanda 2.000 miliardi di tasse in più nei prossimi dieci anni. La sua strategia del tipo “lotta di classe per tosare i ricchi” strozzerà la crescita economica, frenerà l’accumulazione del capitale e bloccherà la creazione di posti di lavoro. La disoccupazione rimane al 10%, e probabilmente crescerà a lungo nei prossimi anni.
   Obama crede di portare a termine il progetto liberal iniziato dal Presidente Franklin D. Roosevelt, FDR. Ma, contrariamente alla mitologia popolare, FDR è stato uno più deleteri leader americani del XX secolo. Il suo New Deal non è riuscito a ristabilire la ripresa economica e ha prolungato la Grande Depressione.
FDR si è scagliato spesso contro i “realisti [nel senso di “monarchici” (ndt)] economici” e contro “le forze dell’egoismo”, imputando a loro la povertà del Paese. La sua guerra contro gli affaristi e i banchieri può aver toccato una corda populista, ma non è servita a ribaltare l’alto tasso di disoccupazione o a far ripartire la produttività industriale. Di fatto, ha gravemente danneggiato la fiducia in economia, ostacolando investimenti e idee imprenditoriali del tutto necessari.
Inoltre, FDR è stato un liberal internazionalista in politica estera. In diplomazia il suo multilateralismo si scontrava con gl’interessi nazionali americani; ha ridotto drasticamente la spesa militare per la maggior parte degli anni 1930 e ha sostenuto il compromesso con la Germania nazionalsocialista. Ha poi deliberatamente omesso di fare il se pur minimo sforzo per salvare gli ebrei durante l’Olocausto, per esempio rifiutandosi di ordinare agli Alleati di bombardare le ferrovie nazionalsocialiste che portavano gli ebrei verso i campi di sterminio. A Yalta ha svenduto l’Europa dell’Est al regime sovietico.
   La politica di FDR ha contribuito allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e ai 50 milioni di morti che è costata, nonché alla schiavizzazione delle nazioni cristiane dell’Est europeo da parte del comunismo. Egli è stato esattamente l'opposto di un grande campione della libertà: è stato un progressista mondialista che demoliva il capitalismo in patria e incoraggiava i totalitarismi nemici dell’America all’estero.
   Obama sta ripetendo molti dei disastrosi errori di FDR. I suoi pesanti aumenti di tasse e la spesa cronicamente in deficit “alla Keynes” minacciano a medio termine la prosperità dell’America. Il suo impulso verso la dilatazione del settore pubblico e verso costosi programmi di allargamento dei diritti stanno esaurendo il settore privato, subordinando il mercato allo Stato burocratico e dominato dalle grandi corporation.
   La sua decisione di garantire i diritti di legge [i cosiddetti “Miranda rights” (ndt)] al “bomber delle mutande” Umar Farouk Abdulmutallab, così come di concedere alla mente degli attacchi dell’11 settembre 2001 Khalid Shaikh Mohammed un processo civile riflette la mancanza di volontà di Obama di sconfiggere il terrorismo islamista. Il suo compromesso con i “mullah apocalittici” dell’Iran sta consentendo loro di procurarsi la bomba a energia nucleare, minacciando potenzialmente di scatenare una guerra che coinvolgerebbe tutto il Medio Oriente. Obama ha tradito l’Europa dell’Est smantellando il promesso scudo antimissile e abbandonando la regione alla sfera d’influenza russa.
   Sta nel contempo indebolendo la forza militare dell’America. Ha ridotto il nostro arsenale nucleare; il suo tentativo di “nation building” in Afghanistan è un altro Vietnam; l’impennata della quantità delle truppe senza una chiara strategia per la vittoria ha impelagato gli Stati Uniti in una lunga campagna di guerriglia, dove si spendono sangue e risorse finanziarie preziosi. L’impulso dato da Obama al servizio esplicito degli omosessuali nell’esercito frantumerà la coesione delle unità, decimerà il morale delle truppe e intaccherà la disciplina: ed è questa la cosa peggiore che un presidente possa fare nel mezzo di due guerre.
   La natura aborre il vuoto. Il declino dell’Occidente è in corso di rimpiazzo da parte delle dinamiche economie capitalistiche dell’Est. La ricchezza — e con essa una sempre maggior potenza — si sta trasferendo all’Asia. Il rivale principale degli Stati Uniti, la Cina, continua un rafforzamento militare senza precedenti. Pechino allo stesso tempo mostra i muscoli e fa incetta di gran parte del nostro debito pubblico. L’America era rispetto alla Gran Bretagna imperiale di un secolo fa ciò che la Cina è per noi oggi: un colosso regionale in ascesa determinato a conseguire l’egemonia globale.
   La politica di Obama ha condotto gli Stati Uniti alla perdita della potenza e del prestigio. Ci ha lasciati più deboli, economicamente, politicamente e militarmente. La sua presidenza è il tentato suicidio dell’America.


[Articolo apparso su The Washington Times del 5-2-2010]

lunedì 1 febbraio 2010


CONSERVATORI 
ALLA RISCOSSA


  La rivolta fermenta in tutta la Middle America. La storica vittoria del repubblicano Scott Brown sul candidato democratico Martha Coakley nelle elezioni tenutesi il 19 gennaio 2010 nel Massachusetts per un seggio al Senato ha provocato un’onda d’urto che ha investito l’intero panorama politico.
    Brown, infatti, in quattro mesi ha recuperato gradualmente uno svantaggio di trenta punti percentuali. Il fatto che rende il suo trionfo ancor più eccezionale è che si è verificato nel più “democratico” degli Stati. Per decenni, il Massachusetts è stato il baluardo del progressismo più radicale. Assistenza sanitaria estesa a tutti senza eccezioni, politiche ispirate all’ambientalismo e all’assistenzialismo più pervasivo, tasse alle stelle e permissivismo sul piano sociale: sono queste le caratteristiche dominanti della politica attuata nel Bay State.    La vittoria a sorpresa di Brown non è soltanto l’equivalente politico di un Davide che sconfigge Golia, ma rappresenta il crollo e la disfatta di un radicato establishment progressista.
    Muovendosi a tutti i livelli, la Casa Bianca sta ansiosamente cercando di evitare che la vittoria di Brown venga letta come un rifiuto popolare dell’agenda interna del presidente e, in particolare, dei suoi sforzi di far approvare una riforma sanitaria che incontra la vivace opposizione di parte della società civile. I democratici di stanza a Washington vanno spiegando che la sconfitta della signora Coakley è da attribuire a una campagna elettorale deprimente e sottotono.
    Il che è vero, ma solo fino a un certo punto: certamente quella del Procuratore Generale dello Stato era una candidatura debole, imposta dall’apparato del partito. Va anche detto, però, che Brown ha cavalcato l’onda di una crescente e generalizzata insofferenza nei confronti di uno status quo tendenzialmente corrotto.
    Scott Brown seppellisce la dinastia dei Kennedy: egli ha scatenato le forze latenti di un populismo refrattario alla sinistra, capaci di far a pezzi la presidenza Obama. Il conservatore “insorgente” che ha eletto Brown ha decretato quale sarà il modello per la campagna repubblicana per le elezioni di metà mandato del 2010.
    Brown non ama le mezze misure: auspica tagli fiscali alla Reagan ed energiche riduzioni della spesa pubblica; intende ripristinare la political accountability, la responsabilità del politico; si oppone a che i terroristi vengano processati da tribunali civili ed è scettico sulla tesi che l’eventuale "riscaldamento globale" abbia una origine umana. Inoltre, ha trasformato la sua campagna in un vero e proprio referendum sulla riforma sanitaria voluta da Obama. Una volta eletto — così si è impegnato solennemente prima delle elezioni —, sarebbe stato il quarantunesimo rappresentante repubblicano in Senato, ossia l’“uomo in più” indispensabile per attuare l’ostruzionismo in aula e quindi per affossare la riforma sanitaria. Da una parte il suo programma anti-obamiano, dall’altra l’immagine di uomo alla mano che si è costruita girando lo Stato a bordo di un grosso pick up, si sono rivelati troppo forti persino per l’oliata macchina propagandistica dei Kennedy.
    La sbalorditiva vittoria di Brown offre ai conservatori una occasione d’oro per costruire sui rottami della presidenza Obama una maggioranza di coalizione su base nazionale: quanto più Obama vira a sinistra, tanto più intensa si rivela infatti la reazione popolare.
    Il problema per la destra è verificare se l’establishment repubblicano intenda limitarsi a tradurre in un aumento di consenso per i propri candidati questo populismo insorgente e diffuso oppure lo voglia incanalare per spingerlo ad abbattere alla fine la deriva progressista verso il big-government, lo Stato burocratico dei democratici. Durante l’amministrazione di George W. Bush, il Partito Repubblicano è diventato succube dei difensori delle grandi corporation e del big-government, tradendo i suoi principi e i suoi sostenitori, entrambi conservatori. La “rivoluzione repubblicana” annunciata nel 1994 è fallita non per merito dei democratici, ma per colpa delle élite corrotte alla testa del partito.
    Per anni, è stata opinione corrente fra gli strateghi del Partito Repubblicano che i conservatori non avessero chance di vittoria in posti come il New England o nelle grandi aree della Rust Belt, le grandi aree industrializzate del nord-est del Paese. E così sceglievano candidati da country club alla William Weld, alla Jim Jeffords, alla Lincoln Chaffee, per poi vederli, uno dopo l’altro, perdere. Brown ha dimostrato quanto questo mito fosse inconsistente e che candidati conservatori indipendenti possono essere la scelta giusta ovunque.
    Naturalmente le cattive abitudini sono dure a morire. Se diamo uno sguardo, per esempio, alle primarie repubblicane tenute per le elezioni al Senato in Illinois che si svolgeranno il 2 febbraio (*), il vincitore potrebbe ritrovarsi a occupare il seggio che è stato di Obama. È da un po’ che l’Illinois pare premiare il Partito Democratico. E così i funzionari del Partito Repubblicano a Washington hanno deciso di schierare in Illinois uno dei loro, Mark Kirk. Il fatto che Kirk sia un repubblicano promotore della Great Society — le politiche rooseveltiane perseguite negli anni 1960 dal Presidente democratico Lyndon B. Johnson contro la povertà e la discriminazione razziale —, sia un abortista e abbia votato l’anno scorso a favore della mostruosa legge cap-and-trade — il commercio dei permessi d’inquinare nei limiti fissati dal governo — sulle emissioni industriali non attenua gli entusiasmi dei boss del partito. I conservatori dovranno stringersi attorno al rivale di Kirk, Patrick Hughes, un uomo d’affari di successo e attivista repubblicano da sempre. Hughes è un “nazionalista” alla Reagan, dice di voler abbassare le tasse, un governo dai poteri limitati e promuovere i valori della famiglia tradizionale e, infine, arginare l’immigrazione clandestina. In breve, è il vero avversario di Kirk: un outsider conservatore che potrebbe diventare lo Scott Brown dell’Illinois.
    Il fatto che i pezzi grossi del Partito Repubblicano non prestino attenzione e non sostengano un uomo come Hughes non è di buon auspicio. Il Partito Repubblicano non è tuttavia la casa in cui i conservatori più tradizionalisti siano obbligati, oggi come in futuro, a trovare rifugio. Piuttosto è un veicolo, un mezzo per conseguire obiettivi conservatori. Se il partito non vorrà o non sarà capace di assolvere a tale funzione, i conservatori dovranno andare altrove, anche a costo di fondare un terzo partito.
    Troppo a lungo i repubblicani hanno dato per scontato il sostegno dei conservatori. Costoro, pur prodigandosi sempre lealmente a vantaggio dei locali dirigenti del Partito Repubblicano, ottengono troppo poco in cambio. Ma la rivolta innescata da Brown si sta diffondendo in tutta la nazione.
   I repubblicani si avviano a vincere le elezioni del 2010 alla grande, ed è addirittura probabile che riconquistino la maggioranza in entrambe le Camere del Congresso.
   Tuttavia, se si vuole che questa vittoria sia veramente significativa, i conservatori dovranno guardarsi non solo dai nemici liberal del Partito Democratico, ma anche da quelli che albergano nei ranghi dei repubblicani.

------------------------------
(*) L'esito delle primarie dei repubblicani per il Senato, come paventato da Jeff, ha visto la vittoria del candidato “centrista” Mark Kirk sul conservatore Hughes. Questi i dati:
- Mark Kirk: voti 416.616 (56.6%)
- Patrick Hughes: voti 141.665 (19.3%)
(I dati sono tratti dal sito
http://en.wikipedia.org/wiki/United_States_Senate_elections_in_Illinois,_2010 >)
(nota del traduttore del 3/2/2010)

[Articolo apparso su The Washington Times di domenica 22 gennaio 2010]
RISCALDAMENTO GLOBALE:
UN MITO UTILE PER IL SOCIALISMO?


  Un po’ alla volta gli ambientalisti radicali stanno dando forma a una nuova post-democrazia socialista che finirà per corrodere il governo a base rappresentativa.
    Il mito del riscaldamento globale (global warming) e l’Environmental Protection Agency (l’Agenzia di Protezione Ambientale del governo americano) stanno rispettivamente diventando l’incudine e il martello di una nuova alleanza rosso-verde, di un eco-marxismo che vuole distruggere il capitalismo e la sovranità dello Stato nazionale. Il vertice organizzato dalle Nazioni Unite sul cambiamento del clima a Copenaghen il 19 dicembre 2009 rappresenta una vittoria significativa del socialismo internazionale che segna altresì il trionfo del fanatismo dell’ideologia sulla realtà.
   I governi nazionali hanno annunciato a Copenaghen ulteriori tagli sulle emissioni di gas-serra. Il presidente Obama ha impegnato gli Stati Uniti a ridurre i livelli di anidride carbonica dell’83% fra il 2005 e il 2050. Per raggiungere questo obiettivo, l’economia americana dovrà subire una completa trasformazione, cioè, di fatto, dovrà essere de-industrializzata.
    Per scoraggiare l’uso delle fonti di energia tradizionali – petrolio, gas, elettricità, carbone – verranno imposte tasse draconiane. Per creare una società a basso tasso di emissione di anidride carbonica saranno necessarie mega-regolamentazioni che restringeranno per sempre i margini di crescita, conferendo allo Stato un totale controllo sull’economia. Si formerà, allora, una élite corporativa di burocrati che avrà pieni poteri e che realizzerà una sintesi fra Big Government, pan-sindacalismo e controllo della grande industria sul regime politico: il tutto al servizio di una nuova economia statalista e “verde”.
    La caduta del Muro di Berlino nel 1989 avrebbe dovuto convincere tutti del fallimento del socialismo. Ma non è andata così: la sinistra, fino ad allora paladina della lotta di classe, è divenuta l’alfiere degli allarmismi climatici. Il suo obiettivo finale rimane, comunque, lo stesso: abbattere le economie di libero mercato e imporre forme di collettivismo. La rivoluzione continua, dunque, all’ombra di una bandiera che oggi, però, è di colore verde.
Esattamente come hanno fatto prima di loro i comunisti, gli ambientalisti radicali sono mossi da una utopia di carattere “laico”. Sono cioè seguaci di una pseudo-religione che promette una salvezza da realizzare in questo mondo piuttosto che nell’altro. L’atteggiamento irrazionale e la serena imperturbabilità nei confronti di fatti e di prove empiriche che li sconfessano li fa assomigliare a una forma di culto delle più settarie.
    I dati sperimentali mostrano che, invece di innalzarsi, le temperature medie negli ultimi decenni registrano un abbassamento. Quello di un riscaldamento del globo causato dall’uomo è il più devastante dei miti del nostro tempo, una frode gigantesca costruita su paccottiglia spacciata per scienza. Il “Climategate”, il più grande scandalo della scienza moderna, non è altro che questo. L’intercettazione di e-mail di scienziati leader nel campo della climatologia che operano presso l’Università dell’East Anglia — dal cui centro di ricerca provengono gran parte dei consulenti della Commissione Internazionale sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite — ha rivelato che i dati scientifici vengono deliberatamente manipolati o soppressi per confortare agende politiche ideologicamente orientate. I campioni dell’allarmismo climatico hanno modificato i modelli per l’elaborazione dei dati in modo da sostenere il copione secondo cui le temperature della Terra sono in aumento a causa delle emissioni di anidride carbonica. Ma questa non è scienza degna di questo nome, ma solo volgare propaganda.
    Coloro che speculano sui timori della gente come l’ex vice-presidente statunitense Al Gore si rifiutano di ammetterlo. Per Gore, quella del riscaldamento globale non è una “verità ingombrante”, ma piuttosto una bugia che torna comoda, quindi da propagandare a tutti i costi perché non venga meno la fede in Gaia, l’antica dea pagana della Terra. Di recente, hanno chiesto a Gore se le rivelazioni sul “Climategate” l’avrebbero dissuaso dal portare avanti il suo progetto per un sistema di cap-and-trade [la possibilità di commerciare fra aziende quote di licenza d’inquinare nei limiti del “tetto” fissato dal governo (ndt)] globale. 
    «Parafrasando Shakespeare, si tratta di una storia piena di frastuono e di passione, che non significa nulla [il riferimento è a Macbeth, scena V (ndt)]», ha detto Gore: «Non ho letto tutte queste e-mail di cui si parla, ma la più recente risale a dieci anni fa. La corrispondenza privata tra questi scienziati non mette assolutamente in questione l’opinione prevalente nel mondo della scienza».
    Gore mente: queste e-mail non sono vecchie di dieci anni. Anzi, sono molto recenti, risalendo alcune di esse solo a pochi mesi fa. Come la maggior parte degli allarmisti del global warming, Gore è un ideologo ottuso che mette nelle tematiche ambientali un fervore religioso impermeabile a un qualsivoglia dibattito condotto su basi razionali.
    Se il ventesimo secolo ci ha insegnato qualcosa è che le utopie conducono al totalitarismo: ti incammini verso Utopia e ti ritrovi sul Golgota. Da più di un decennio a Gore e ai socialisti verdi che si ritrova come seguaci è stato annunciato che Armageddon è ormai vicina. Calotte polari che si scioglieranno, livello del mare destinato ad alzarsi, città come New York e San Francisco sommerse dalle acque, siccità insostenibili, carestie di massa, centinaia di milioni di rifugiati a causa del mutato clima: tutti disastri che si suppongono imminenti e che andranno addebitati al capitalismo.
    Ecco, allora, che Gore e Obama sono determinati a salvare l’umanità persino da se stessa, qualora sia necessario. E anche a costo, talvolta, di sacrificare le regole imposte dalla democrazia. Con la legge sul cap-and-trade congelata al Senato, coi democratici moderati che nutrono seri dubbi sui suoi alti costi e con una opinione pubblica scettica sulle responsabilità dell’uomo riguardo al presunto riscaldamento globale, l’amministrazione Obama ricorre a un regime di regolamenti che completano la sua agenda ambientalista radicale.
    L’EPA, l’Environmental Protection Agency, ha fatto la scorsa settimana un annuncio storico: l’anidride carbonica sarà considerata una sostanza inquinante. Facendo leva su norme anti-inquinamento, l’EPA reclama il diritto di imporre in maniera massiccia tasse e regolamenti riguardanti l’intera sfera economica. In nome del controllo dell’anidride carbonica, l’EPA riuscirà a vessare l’industria e il commercio, specialmente il settore degli impianti di combustione delle materie prime e quello manifatturiero. Una volta in vigore, questi regolamenti stabiliranno de facto un sistema di cap-and-trade evitando così di rimettersi alle decisioni del Congresso.
  L’annuncio dell’EPA segna un importante spartiacque politico: l’ascesa di una classe dirigente socialista sottratta al controllo degli elettori. Barack Hussein Obama userà i regolamenti che provengono da queste agenzie per imporre un suo “New Deal ambientale”, scavalcando il consenso popolare e la necessità di persuadere gli elettori. Il New Deal originario degli anni 1930 lanciato dal Presidente Franklin D. Roosevelt dovette aspettare l’approvazione del Congresso: in altre parole passò attraverso un regolare processo legislativo e un dibattito che rispettava le regole della democrazia.
   I progressisti di un tempo, infatti, credevano ancora di dover rispettare la volontà popolare e le procedure della democrazia. Oggi, pare invece che anche questi valori possano essere disattesi, visto che la loro è una corsa contro il tempo per “salvare il pianeta”.


[Articolo apparso su The Washington Times di domenica 13 dicembre 2009; alcuni verbi al tempo futuro sono stati modificati in tempo passato] 

Cerca nel blog